Economia

La vecchia novità

La vecchia novità

Chi punta ad abbassare la pressione fiscale merita un applauso. Si può essere diffidenti circa la praticabilità dell’intento, ma non dubitare della sua utilità. Se tutto si riducesse a stabilire quanto la promessa di Matteo Renzi sia realistica, propenderei per il fiducioso incoraggiamento. Purtroppo, però, non trovo la novità che tutti sembrano vedere, salvo apprezzarla o dileggiarla. Quale sarebbe: la sinistra che promette meno anziché più tasse? A parte il fatto che non è per niente la prima volta, forse s’è frettolosamente perso l’intero ragionamento governativo: barattando riforme e buona condotta contro elasticità, puntiamo a togliere alcune imposizioni. Tradotto in termini meno letterari: crediamo di potere chiedere alla Commissione europea un deficit superiore. E dov’è la novità? Sono due anni che lo chiedono. E il deficit alto, quindi la crescita del debito e dei suoi oneri, sicché la maggiore pressione fiscale spostata nel futuro, è la ricetta avvelenata che si è praticata dopo il fallimento del centro sinistra (quello storico, con Pietro Nenni). Quella che ci ha portato ad avere un debito mostruoso, che comporta una spesa debilitante. Altro che novità, questa è roba che osteggiavano Ugo La Malfa negli anni settanta e Beniamino Andreatta negli ottanta! Financo il Partito comunista s’accorse della bomba a orologeria, deducendone la politica dell’“austerità”, con il solito e fastidioso vezzo moralistico.

Il deficit non è un male in sé. Un Paese con i conti in ordine, ma con una sacca di disoccupazione che non si riesce a riassorbire, può ben spendere in deficit per spingere l’economia. Ma un Paese con i conti scassati, con la spesa corrente che corre per i fatti suoi, inseguita dall’ansimante pressione fiscale, con un debito che non solo è pazzescamente alto, ma che, proprio per questo, cresce per i fatti suoi, ha già fatto tanto di quel deficit da essersi stabilmente assestato nel vivere al di sopra dei propri mezzi, salvo poi, un brutto giorno, accorgersi che il costo del debito gli sottrae mezzi vitali. Da quindici anni, con la sola eccezione del 2009, siamo un virtuoso e demenziale esempio di avanzo primario. Virtuoso, perché spendiamo meno di quel che incassiamo, sicché dovremmo essere ricchi di risparmio pubblico. Demenziale perché spendiamo in interessi più di quel che risparmiamo, diventando poveri nell’investire e sempre più indebitati. E la novità consisterebbe nel ridurre l’avanzo primario, aumentare il deficit e con quello il debito? Questa è la peggiore tradizione, altro che novità.

Sono favorevolissimo alla diminuzione della pressione fiscale, ma in quanto frutto della diminuzione della spesa. Cosa che si può ottenere tagliando quella corrente improduttiva (invece si fa il contrario, come accade nel settore della scuola, ma non solo lì), e abbattendo il debito, quindi diminuendo la spesa per interessi. Altrimenti la grazia fiscale di oggi (sempre che la si agguanti) diventa la disgrazia di domani. Maggiorata dagli interessi. E’ questa la ragione per cui corro a nascondere il portafoglio ogni volta che sento parlare di “elasticità”: perché qualcuno sta dicendo, senza dirlo, che vuole prendere i miei soldi e impegnarli a garanzia delle spese odierne, finanziate con cambiali che dovrò pagare domani.

Obiettano i manovratori: facendo deficit per deprimere il fisco si liberano risorse che spingono la crescita, ripagandosi da sole. Sì, lallero: aumentando il debito si spronano spese improduttive, che deprimono la crescita fino al restare sotto la metà dell’eurozona, nonostante la Bce e il petrolio ce la mettano tutta. Chi contrae debiti per investire in produzione c’è il caso che diventi ricco, ma chi lo fa per mantenere le amanti arricchisce di colore la vita e consegna alla povertà i figli di quelle madri generose.

I governi virtuosi non sono quelli che non tassano, ma quelli che tassano oggi per le spese di oggi. I governi avventurosi sono quelli che spendono oggi e tassano domani, corrompendo la democrazia stessa, perché chi vota consuma quel che sarà pagato da chi non vota ancora, o non conta in proporzione. Di avventure ne vivemmo già abbastanza.

Capisco bene che ci si possa concentrare sul gradino successivo, ovvero supporre, come puntualmente avviene da lustri, che uno sgravio fiscale da una parte corrisponda ad un aggravio dall’altra. Ma qui il problema non è fidarsi e sperare, ma leggere e contare: nel modo in cui quella proposta è formulata promette debiti. E l’ho visto fare tante di quelle volte da trovare surreale che si possa definirla una novità.

Pubblicato da Libero

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