Il 20 settembre ricorre la Breccia di Porta Pia (1870): la fine della Roma papalina e il riconoscimento, di lì a qualche mese, della città come capitale d’Italia. Quest’anno il 20 settembre sarà anche una scadenza meno destinata a entrare nella storia, ma causa di grattacapi: entro quella data dev’essere presentato il Piano strutturale di bilancio, ovvero il programma delle casse statali per i successivi 5 anni. Ed è tutto un piangere miseria, mancando i soldi per questo e per quello, fino al paradosso di paventare la detestata austerità per bilanci pubblici che continuano a essere in deficit, sicché tutto tranne che austeri.
Non è una condizione nuova e stupisce lo stupore addolorato di non pochi ministri che già furono ministri, sicché già avrebbero dovuto prender confidenza con i problemi di un Paese con un debito esagerato e che anche quest’anno spenderà più di quanto destina all’istruzione – avviandosi verso i 100 miliardi – per pagare gli interessi a chi quei soldi presta e continua a prestare. C’è un’altra cosa che inquieta: fra i fondi di Next Generation Eu (che alimentano il Pnrr) e altri fondi europei ci sono più di 200 miliardi da spendere, dotazione di cui risulta già speso all’incirca soltanto il 25%. E la cosa singolare è che quella massa di quattrini, in parte a fondo perduto e per l’altra parte prestati a un tasso d’interesse inferiore a quello che paghiamo sul mercato, rischia di restare sospesa per l’incapacità di utilizzarla. Come fa a piangere miseria chi ha le casse piene di quei soldi?
Ci riesce perché la spesa in cui si è specializzati è quella corrente, mentre i quattrini dei fondi europei sono destinati agli investimenti. E lamentare che non ci sono abbastanza soldi per chiudere in modo soddisfacente i progetti di bilancio è come dire che la spesa pubblica italiana è fatta pressoché interamente di spesa corrente. È quello il problema, non la penuria. Ma è anche quello l’aspetto sconfortante della politica italiana, perché nell’alternarsi di governi con diversa colorazione si è costantemente ceduto alla spesa corrente. Gli spendaroli hanno sempre avuto la maggioranza assoluta dei voti e, conseguentemente, degli eletti. Se poi si tratta di progettare il futuro, programmare investimenti, avere procedure di decisione e di controllo, dovere rendicontare la spesa di soldi che sono garantiti da tutti i contribuenti europei, allora casca l’asino. Capacissimo peraltro di piangere come un coccodrillo.
Uno dei problemi che il governo si trova difronte consiste nel rifinanziare provvedimenti e sconti fiscali che furono decisi e finanziati per uno o due anni. Quel tipo di spesa non innesca alcun effetto virtuoso, proprio perché temporaneo. Se so che ho uno sconto fiscale per quest’anno non programmo a mia volta spese pluriennali, perché non è detto lo abbia anche l’anno prossimo. Se ho un taglio temporaneo del cuneo fiscale non ne faccio un pilastro di programmazione aziendale, perché poi magari sparisce. In questo momento le agevolazioni fiscali attive sono 624. Non c’è fiscalista (forse neanche governante) che le conosca tutte. Ma se ne tocco una sola suscito la reazione di quanti se ne giovano. Una giungla intricata e in gran parte sterile. Ma nessuno ha il coraggio di disboscarla. Siccome poi i conti non possono sballare più di tanto, ecco che convivono la voglia di dare sgravi e il bisogno di mettere aggravi. Difatti tutti promettono meno pressione fiscale e quella cresce per i fatti suoi, ma senza una linea che abbia un senso politico, una visione della fiscalità.
Nel nuovo Patto di stabilità i piani strutturali servono a cercare di dare un senso coerente e costante al disegno di bilancio. Se ne dovrebbe preoccupare l’opposizione, perché gli impegni che prende il governo di oggi valgono anche per l’Italia di domani. Invece se ne preoccupa il governo, che ha oggi il potere di fare quel che non vorrebbe fare mai. Piuttosto che fare si preferisce mostrare e rinviare, contando che siano altri a dovere rendicontare.
Davide Giacalone, La Ragione 28 agosto 2024