La disoccupazione al 13% è un dato duro e doloroso, ma il fatto che la metà della popolazione attiva (44.8%) sia fuori dal mondo del lavoro è anche peggiore. E’ inutile cercare di stabilire di quale governo sia colpa, perché è colpa del non avere governato prima la globalizzazione e poi la crisi. Ed è altrettanto inutile gioire alle sagre dell’annunciazione o usare l’inglese per ridenominare l’annaspare, perché nei mesi che ci attendono quei dati sono destinati a peggiorare.
La deflazione è lì a certificarlo. Ci è stato detto che, nell’eurozona, solo Cipro, Grecia, Spagna e Portogallo sono in deflazione. Non è vero, lo siamo anche noi. Non risulta dai dati rilevati, che ancora ci assegnano un’inflazione agonizzante allo 0.4, ma si vede nella realtà. Per capirla andate dal tabaccaio: il prezzo delle sigarette è fatto in gran parte di tasse, le accise sono state costantemente aumentate e ancora si voleva farlo qualche settimana addietro, l’agio, il guadagno dei rivenditori è sceso e i consumi si contraggono. Questo vuol dire che il poco d’inflazione che c’è è dovuto alla pressione fiscale (come l’Iva), mentre il mercato reale è già in deflazione. Ciò toglie ogni significato al pavoneggiarsi sciocco sui tassi d’interesse che paghiamo per il debito pubblico e, conseguentemente, per il restringersi dello spread (posto che restiamo sopra la Spagna): al maggiore tasso d’interesse, rispetto ai tedeschi, si deve sommare la maggiore inflazione, che si registra da loro.
Qui non siamo mai stati fra gli adoratori dello spread, riuscendo a restare monotonamente della medesima opinione sia quando saliva e veniva usato per maledire i governi in carica, sia quando scendeva e lo si usava per benedirli. Il guaio del pavoneggiarsi è che se non si credono è da galline che si ficcano le penne nella coda, e se ci credono è da polli.
L’intera eurozona ha la pressione bassa. Resta l’area più ricca e benestante del mondo, la più protetta e viziata, ma cresce meno degli altri. Si rattrappisce. E quel che è allucinante è che anziché porsi il problema di ritrovare la via della crescita s’è concentrata nello sfruttare i vantaggi competitivi interni, gli uni contro gli altri, i guerci contro gli sciancati. Tutti ricchi e tutti persi a credere che la partita si giochi dentro il campo dell’euro. Da questa perversione noi italiani abbiamo rimediato calci negli stinchi e cori d’insulti. Andarsene non è una soluzione, sarebbe meglio entrare in partita e restituire orgoglio alle tifoserie.
Come? Sul fronte del lavoro è quella metà d’italiani nullafacenti a doverci guidare. Chi lo è per scelta va rispettato, ma non finanziato, sussidiato o sostenuto. Lo so che è brutale, detto così, ma sarà assai più brutale pagare il prezzo dell’inazione. Altro che dilemma fra due o tre anni, quale tetto per i contratti a termine, qui si deve massicciamente deregolamentare, posto che la regolazione non ha più prodotto, da tempo, garanzie per i lavoratori, ma garanzie di disoccupazione. Il vero incubo non è la deregolamentazione, ma la regolazione che crea mercato e lavoro neri. Quando l’Italia del nero sarà ufficialmente certificata come non solo più elastica, ma anche più ambita e protettiva di quella regolamentata non ci resterà che lasciare il governo alle organizzazioni criminali. Preferirei evitarlo.
Sul fronte della deflazione noi italiani ci troviamo in una posizione contraddittoria. Da una parte dovremmo battere gli impedimenti all’uso della spesa pubblica in chiave anticiclica, dall’altra abbiamo una spesa pubblica corrente fuori controllo e in grado di generare non sviluppo ma pressione fiscale. Dobbiamo tagliare e riformare, proprio per spendere e correre. Ma (e lo ripeto da quando il governo Renzi è nato, convinto che i soldi per pagare le imprese e sgravare una fettina di Irpef si trovano) non funziona la politica dei due tempi: prima taglio e riformo, poi tratto i vincoli di bilancio, in sede europea. Non funziona perché prima del secondo tempo s’infiamma la platea. Anche perché lavorando uno su due non è difficile immaginare cosa succede al crescere dei disoccupati.
All’Italia non serve trattare sul vincolo del deficit, perché quello può favorire i conti del governo di turno, ma non cambiare lo scenario. Serve stabilire se i prossimi cinque anni li passiamo con crescite del pil che passano dallo zero virgola all’unità, deflazione sostanziale corretta da pressione fiscale, rientro dal debito a spese del contribuente. Ci serve sapere se è questo il film. Nel qual caso è prevedibile che prima dei titoli di coda sarà smontato l’intero cinema.
Pubblicato da Libero