Economia

Le mani sulla cassa

Le mani sulla cassa

Cambiano i vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp). L’attenzione collettiva s’appunta sui nomi, che, però, dovrebbero essere funzione della cosa e del cosa sono incaricati di fare. Questa partita è rilevantissima. Di portata storica. Sarà bene non cucinarla e non consentire che sia cucinata come fosse un qualsiasi piatto della mensa governativa.

E’ capitato spesso che incarichi scaduti si siano trascinati in regime di proroga, perché non si procedeva alle nuove nomine. Cattivo costume. Qui, però, siamo di fronte a uno spettacolo opposto: i vertici attuali scadrebbero fra un anno, ma vengono silurati e sostituiti in anticipo. Perché? Troverei meritorio l’avvicendamento, se agli attuali responsabili s’imputassero precise mancanze. Riterrei utile sostituirli anche solo perché hanno parlato troppo, come fossero alla guida di un fondo d’investimento, anziché di un istituto molto particolare, che dovrebbe provvedere al finanziamento degli enti locali, non al perseguimento di una (quale?) politica industriale. Ma è questo il senso della decisione governativa? O vengono mandati via perché non sono stati abbastanza solleciti nel dare attuazione ai non ordini governativi? Ovvero a quelle iniziative che dal governo vengono suggerite, senza neanche potere essere esplicitamente imposte? Ai nuovi dirigenti è assegnata la missione di perseguire più riservatezza o più attivismo? Sembrerebbe la seconda cosa, visto che si tratta di due banchieri, di cui uno proveniente da una banca d’affari. Sembrerebbe, ma dovrebbe essere chiaro. Su un punto di tale rilevanza sarebbe opportuno un apposito dibattito parlamentare.

Per dirne una: la Cdp si colloca al di fuori del perimetro della spesa pubblica, può agire, quindi, senza intaccare il deficit e il debito pubblici, ma resta una Cassa pubblica, posseduta dal Ministero dell’economia (tesoro, secondo la vecchia dizione) e, in posizione largamente minoritaria, dalle fondazioni bancarie; l’abbondante liquidità di cui dispone (capace di generare dividendi per gli azionisti) discende dalla gestione dei flussi generati dalle Poste; per queste ultime è prevista l’imminente quotazione in Borsa. E’ evidente che i soldi o si valorizzano da una parte o dall’altra, il che sposta, non poco, la loro resa in capo ad azionisti privati (in Borsa) o pubblici. Un chiarimento è necessario, se non vogliamo continuare a quotare lo statalismo, dopo avere abbondantemente quotato il socialismo municipale.

Domenica scorsa segnalavamo i casi paralleli di telecomunicazioni e acciaio, due settori prima pubblici, poi privatizzati, quindi nuovamente oggetto d’intervento pubblico. Se la Cdp è destinata a essere lo strumento principe di questa nuova economia pianificata è lecito chiedere che ne siano discussi i contorni, gli strumenti e le finalità.

Ricordo che financo Benito Mussolini, quando imboccò la strada dell’intervento pubblico in economia, lo fece affidandone la gestione a gente come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, che non solo non erano partecipi di alcun fascio magico, ma erano antifascisti (e agli oppositori del regime diedero non pochi aiuti). Da quella scelta, lungimirante, nacque sia l’Istituto ricostruzione industriale (Iri) che la Mediobanca, poi affidata (dopo la Liberazione) a un antifascista di nome Enrico Cuccia (che aveva sposato la figlia di Beneduce, il cui nome è un programma: Idea Nuova). Lungi da me abbandonarmi all’apologia, ma sarei rattristato assai se quell’esempio fosse considerato troppo liberale e sciocco nel non favorire i propri amici. Sarebbe imbarazzante scoprire che oggi è più facile d’allora mettere le mani sulla e nella Cassa.

Il cambio ai vertici della Cdp non può e non deve essere un problema di nomi, ma di politiche. Le scelte non possono e non devono essere per amicizia e colleganza, né di chi governa né di chi lo affianca guidandolo. Qui stiamo parlando della colonna vertebrale stessa di un’Italia produttiva che prova a rimettersi in piedi. Se c’è la gobba, meglio correggerla subito. Se c’è un gobbo, da cui gli attori leggono il copione, meglio individuarlo subito. Rimandare e far finta di niente significa prepararsi a perdere tempo, quattrini e a far nascere una nuova genia di corsari pronti ad arricchirsi con la spesa pubblica. Sarebbe opaco e pericoloso un governo che si rifiutasse di affrontare il dibattito. Sarebbe inutile e miserevolmente succube un’opposizione che non lo chiedesse.

Pubblicato da Libero

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