Economia

L’Italia che corre

L'Italia che corre

l’Italia è un Paese ricco d’innovatori, ma capace di renderli poveri. Una terribile contraddizione. Un modo dissennato di bruciare valore. Per ragionare e costruire, dunque, dobbiamo partire dalla consapevolezza di quel che valiamo: abbiamo imprenditori coraggiosi e capaci d’adattarsi, un patrimonio prezioso che ancora ci rende forti (e ammirati, fuori da qui); abbiamo lavoratori, spesso giovani, non solo preparati, ma disposti a sentirsi parte e non controparte delle imprese, degli imprenditori con i quali collaborano; abbiamo un tessuto produttivo che consente scambi, interazioni e cooperazione nella crescita. Quando mostriamo questo volto il mondo che corre e i mercati ci riconoscono come fra i migliori. Quando puntiamo su qualità, innovazione e ideazioni siamo difficilmente battibili. Poi c’è l’altra faccia della medaglia.

Il sistema delle regole, da quelle fiscali a quelle amministrative, è concepito in modo da conservare il passato. Pretendendo di tutelare tutto finisce con tutto fiaccare. Se non si vuole portare fuori mercato chi ha i numeri per crescere, se non si vuole, come fin qui si è fatto, istigare all’evasione, occorre che la fiscalità sul mondo produttivo sia significativamente alleggerita. E’ possibile, se solo si sceglie di prendere ricchezza dal patrimonio pubblico anziché succhiarla alla produzione privata. Il governo non deve procedere cercando risorse per finanziare gli aiuti, ma lasciando libere le risorse, per non porre ostacoli.

Le regole amministrative subordinano l’impresa ad una macchina burocratica pazzotica e invasiva. Vale la pena ripetere che la digitalizzazione della pubblica amministrazione è spreco di denaro se non serve a: diminuirne i costi, diminuirne il personale e aumentarne la trasparenza. Ciò che non è indispensabile sia fatto dal pubblico deve essere restituito al mercato. E questo è il modo per tagliare vigorosamente la spesa pubblica aumentando sia il numero che la qualità dei servizi al cittadino. Non solo si può, ma facendolo si darebbe spazio proprio all’innovazione.

Un compito cui lo Stato non può venir meno è quello di amministrare la giustizia. Oggi viene meno, nel senso che non solo non funziona, ma si assiste a fenomeni negativi di privatizzazione, a tutto sfavore dei soggetti più deboli. La riforma della giustizia, civile e penale, la digitalizzazione dei procedimenti e il più che dimezzamento dei tempi non sono faccende che riguardano magistrati e avvocati, ma cittadini e imprese. Senza diritto non c’è mercato. Senza giustizia non c’è diritto.

Veniamo ai soldi. L’Europa è impegnata a salvare le proprie banche, ed è giusto che lo faccia. L’impresa italiana è impegnata a salvarsi dalle banche, ma nessuno se ne cura. Il credito è stato amministrato male, ma chi ne è responsabile è stato premiato. Il mercato, come la vita, è fatto di meriti e responsabilità, se si umiliano i primi e si nascondo le seconde si crea solo ingiustizia e povertà. Il nostro è un Paese intollerabilmente povero di soggetti in grado di fornire capitale di rischio, e lo è anche perché, a causa di quanto ricordato, il rischio è troppo alto, quindi lo si mette in capo a uno solo, l’imprenditore. Non può funzionare. Ripeto: salviamo le banche europee, ma nel salvarle cambiamole e lasciamo spazio alla competizione e a nuovi soggetti, altrimenti sarà un salvataggio inutile, oltre che costoso.

Mi colpisce sempre, a fasi ricorrenti, che i governi annuncino la decisione di pagare quel che lo Stato deve alle imprese. Il fatto che lo si ripeta, nel tempo, è segno che non lo si fa. Il fatto che lo si dica come una conquista spiega molto, perché pagare, per i privati, è un obbligo venendo meno al quale si subiscono prezzi economici e penali. Un Paese in cui lo Stato non rispetta le regole che impone è mortalmente corrotto. Vorrei che questo concetto fosse più presente, quando s’affronta la materia.

Strutture pubbliche che aiutino il mercato servono, purché non pretendano di sostituirvisi. Per molti piccoli imprenditori, nelle cui aziende si trovano anelli preziosi delle catene del valore, avere l’appoggio pubblico, per navigare il mondo, è importante. Lo Stato non deve avere sovrapposizioni e duplicazioni, che oggi ci sono. Nessuno è proprietario di quel che è pubblico, ma ciascuno deve pretendere che quel che funziona sia valorizzato e quel che non funziona chiuso.

L’Italia è forte. Purtroppo lo è anche nel farsi del male. Molliamo le briglie al merito e al mercato, vedremo che l’Italia che corre è assai più bella di quella che frena.

Condividi questo articolo