La ricreazione greca finisce e i ragazzi rientrano nei ranghi. Non è stato per niente divertente, un ministro è divenuto star, ma di lui non si ricorderà né l’acume economico né l’abilità negoziale. Tanto che il capo del governo (Tsipras) ha preferito fare da sé. Il punto è: chi ci guadagna e chi ci perde? La dimostrazione che gli impegni presi vanno rispettati, se non si vuole essere gettati agli squali in mare aperto, cosa comporta per l’Italia?
Dico subito ciò su cui, razionalmente o (più che altro) emotivamente, taluni non concordano: se la conclusione segnasse un rafforzamento dell’euro e dell’Europa, oltre che la messa in sicurezza dei conti greci, ci sarebbe da festeggiare. Non ne sono sicuro, però. Per una ragione di metodo e una di sostanza.
Non è stato un bel vedere che da una parte del tavolo si sia seduto il governo greco, sotto esame, e dall’altro, nel ruolo di esaminatori, le autorità europee (presidenti della Banca centrale, della Commissione, del Consiglio e dell’Eurogruppo), affiancate dai governi tedeschi e francesi, con Merkel e Hollande. Nelle fasi precedenti al loro posto sedevano i rispettivi ministri dell’economia. Quella presenza direttamente governativa e nazionale ha tolto autorevolezza e funzione a quanti rappresentano quel che esiste dell’Ue istituzionale. Considerato che ciò è avvenuto nel mentre tedeschi e francesi incarnano, da soli, l’Unione europea, nella trattativa con i russi, relativa alla sorte dell’Ucraina, quella presenza ha assunto un significato che è il contrario dell’Unione. Per noi italiani è un doppio smacco: in quanto europei, quindi usurpati di una rappresentanza determinata unicamente dai trattati; e in quanto creditori della Grecia. Punto sul quale vale la pena aggiungere un dettaglio: è vero che siamo i terzi prestatori, dopo Germania e Francia, ma siamo i primi prestatori netti, senza incassare benefici paragonabili per le nostre banche. E’ vero che i tedeschi e i francesi hanno prestato di più, ma hanno anche preso di più. E noi abbiamo prestato prendendo a prestito soldi che abbiamo pagato più del tasso agevolato praticato ai greci, loro meno, quindi siamo i più massicci trasferitori di ricchezza dai nostri contribuenti a quelli greci. Non si vede perché, in queste condizioni, noi si debba essere rappresentati dalle autorità europee, mentre tedeschi e francesi dai loro governi. A me va bene che i primi rappresentino tutti, mentre non va affatto che noi si sia gli esclusi di maggior peso e coinvolgimento.
Poi c’è una questione di merito: quella cui si è giunti non è la soluzione della crisi greca, bensì il rinvio del problema che quella comporta ed evidenzia, vale a dire l’impossibilità di far convivere sotto una sola moneta politiche fiscali e di bilancio diverse. Debiti nazionali diversi, venduti a tassi d’interesse diversi. Si possono usare vari strumenti per mettere in equilibrio una simile roba, ma non si può pensare di tenerla a lungo in questa condizione. Ciò che è intimamente squilibrato può essere compensato in via passeggera, ma non stabilizzato a lungo. Tale tema prescinde e supera il caso greco, sicché andrebbe affrontato in modo sistemico e generale. Noi, come è noto, rientriamo nel caso di squilibrio pericoloso, come la Bce (giustamente) non ha mancato di ricordarci. Quindi, nel merito, non possono andarci bene soluzioni parziali e dialettali.
Dal punto di vista pratico, impegnandosi il governo greco a rispettare i patti siglati il 20 febbraio scorso, con tanti saluti alle (insensate) promesse elettorali, per noi significa che i soldi prestati restano una partita teoricamente esigibile, ma che praticamente non potrà essere esatta. Non in tempi prevedibili, almeno. A questo si aggiunga che per non far supporre ai mercati che l’accordo con i greci sia l’anticamera dello sbracamento, dovendo ribadire la linea del (sano) rigore contabile, si dovrà trovare il soggetto adatto su cui dimostrarlo. Il bollettino Bce di marzo parla di noi. Non è un caso. Ed hanno anche ragione.
Pubblicato da Libero