La disoccupazione cresce, ma il dato che descrive il dramma italiano non è questo, bensì quello dell’occupazione, che rimane patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, perché i due indici segnalano due problemi diversi. E la disoccupazione non è il più grave. Si deve capirlo, se non si vogliono applicare ricette illusorie, o meramente anestetizzanti.
L’Istat rende noto che nello scorso mese di ottobre la disoccupazione è giunta al 13.2%, in crescita dello 0.3 rispetto al mese precedente e dell’1% su base annua. Il male c’è, è grave e cresce, fino a toccare il suo record storico negativo, perché il peggiore dal 1977, quando si cominciarono a redigere le serie trimestrali. Così i disoccupati arrivano a 3 milioni 410 mila. Certamente troppi. Per non parlare della disoccupazione giovanile, anche se si deve considerare che la mostruosa percentuale del 43.3 è influenzata dal fatto che, seguendo le indicazioni europee, la si calcola nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, ma da noi è ben difficile dare lavoro a dei minorenni, senza incorrere nella pubblica dannazione e nel rischio di finire incriminati. Certi modi di contare discendono anche da certi modi di ragionare, sconosciuti nel Paese in cui tutto è proibito, tranne ciò che è esplicitamente regolato in modo che non si possa farlo.
Ma, ripeto, non sono questi i dati che fanno più paura. Quello decisivo è un altro: gli occupati sono appena il 55.6% della popolazione da considerarsi attiva. A ottobre erano 22 milioni e 374 mila, sostanzialmente stabili: -0.1 rispetto al mese precedente, + 0.1 rispetto all’anno precedente. Una stabilità che non ha nulla di buono, perché va letta in questo modo: in Italia un terzo dei cittadini ne mantiene due terzi e di quelli che potrebbero e dovrebbero lavorare se ne trovano impegnati poco più della metà. E in un Paese in cui poco meno della metà di quelli che dovrebbero essere al lavoro sono nullafacenti (salvo il mercato nero, ma allora si dovrebbe sottrarre dagli attivi i non produttivi) le cose non possono che andare male. Questo è il dramma. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni la partecipazione al lavoro è ferma al 59.8%, poco più del dato risalente al 2002, il che significa che si tratta di una problema strutturale (in Germania lavora il 77.1% di quella fascia). Siamo ben 8.5 punti al di sotto della media europea. Posto che i dati regionali disaggregati dimostrano che c’è un’Italia europea e una africana, il che non deve indurre a spropositi etnicodemenziali, ma a considerazioni amare sulla tolleranza della devianza sociale, economica e criminale, nella media nazionale mancano all’appello due “categorie”: le donne e i giovani fra i 25 e i 34 anni. Due eserciti con i quali si potrebbero vincere importanti battaglie contro il declino.
Chiedo scusa per la raffica di numeri, ma quel che chiedo al lettore di considerare è un concetto semplice: se la seconda potenza industriale d’Europa riesce a essere tale avendo una partecipazione al lavoro patologicamente inferiore alla media continentale, cosa accadrebbe se fossimo capaci di cancellare questo svantaggio? L’Italia schizzerebbe in avanti, il motore produttivo farebbe sentire un ruggito, la ricchezza crescerebbe e potremmo lenire un umore collettivo sempre più tetro. E questa non è la prospettazione di un ipotetico miracolo, ma il riassunto di un immediato dovere, per chi ha la responsabilità di governare il Paese.
Questo genere di problemi si affronta non con sgravi fiscali limitati nel tempo o con deregolamentazioni altrettanto passeggere, ma con modifiche profonde del modo in cui si considera il lavoro, sia in ingresso che in uscita. Quando la metà degli abili e arruolabili è assente senza essere renitente è segno che il modello legislativo ed economico adottato è errato. E l’enormità di questi dati rende piccinino l’ozioso e sempre uguale scontro sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Già solo che se ne parli ancora è segno che non si è capito nulla della realtà. Il nostro primo problema è quello di far tornare a essere reale quell’esercito fantasma, composto da italiane e italiani che dovrebbero essere al lavoro e che si ritrovano sbattuti altrove. Le celeberrime “garanzie” e i mitici “diritti acquisiti” sono i loro nemici. Non la meta da raggiungere, ma il dirupo da cui fuggire. E se riguardate con attenzione i dati relativi all’età vi accorgete di una cosa evidente: stiamo tutelando l’invecchiamento della popolazione al lavoro, così covando la bancarotta previdenziale, che già ha preso corpo negando ai più giovani quel che oggi è considerato meno del minimo per i pensionati.
Certo che i disoccupati sono troppi, ma il dramma sono gli occupati: troppo pochi. Se lo si capisse si metterebbe fine a tante discussioni inutili.
Pubblicato da Libero