Nel giugno del 2012, con un decreto legge, quindi adducendo necessità e urgenza, il governo Monti istituì l’Agenzia Digitale. E’ passato quasi un anno e non solo è ancora ferma, ma si sono creati guasti e danni gravi. Allora scrissi che era un pasticcio, ma non immaginavo che le cose sarebbero andate così rovinosamente. Vediamo perché e ragioniamo su come è possibile uscirne.
La pretesa del decreto era quella di concentrare tutto in un solo luogo e farne discendere coordinamento e agilità. La classica illusione del legislatore presuntuoso e del burocrate scaltro: piegare il mondo alla norma, scritta ignorando il mondo. Risultato: doveva confluire un dipartimento della presidenza del Consiglio (il Dit), ma si è ottenuto solo il suo svuotamento e la migrazione dei dipendenti ad altra amministrazione; doveva confluire l’Agenzia per l’innovazione, ma si è provocato solo la distruzione del lavoro fatto con la Cina e avviato in altre parti del mondo, con grave danno per le imprese di “Italia degli Innovatori”, che era stata considerata, dal comitato organizzatore, non da noi, la migliore realizzazione di tutto l’Expo 2010 (e con la vergogna che al forum cinese di aprile l’unica sedia vuota era quella italiana, pur essendo noi italiani, per meriti passati e distrutti, fra gli organizzatori); doveva confluire DigtPa, quindi la competenza nel campo contrattualistico e dell’armonizzazione, ma si è solo rasa al suolo la competenza che colà si trovava.
Il ministro dell’Istruzione (Francesco Profumo) e delle Attività produttive (Corrado Passera) diedero vita a un lungo braccio di ferro sulla nomina del nuovo commissario, poi direttore. Potere per il potere, che generò impotenza. Fu poi nominato un dirigente di Poste Italiane, che ha provato a portare nell’agenzia, quali dirigenti ben pagati, diversi suoi colleghi. Morale: la Corte dei conti ha schifato lo statuto e il governo lo ha ritirato. Un anno dopo non siamo a zero, ma sotto.
Le cose da farsi. 1. Portare innovazione e internazionalizzazione sotto lo stesso cappello, adottando “Italia degli Innovatori” come pratica virtuosa ed esemplare. 2. Non pretendere di dire all’Italia come deve digitalizzarsi, ma costringere la pubblica amministrazione a offrire i propri prodotti su tutte le piattaforme digitali. Il nemico non è il cittadino o l’impresa, ma il conservatorismo burocratico dietro il quale si cela il succoso e opaco mercato dell’informatica senza digitalizzazione. 3. Mettere alla guida chi sappia quel che dice, o che, almeno, conosca la realtà (nei giorni scorsi è stata lanciata l’idea di rendere possibili i pagamenti verso la pa anche da terminali diffusi, come quelli dei tabaccai, s’è coniugato al futuro quel che già esiste e funziona nel passato, segno che chi ne parla non sa di che parla). 4. Portare la gestione delle gare sotto un’unica autorità, in modo da non diffondere la tentazione d’incrostare complicità negli angoli bui. 5. Separare l’attività di standardizzazione e controllo da quella di appalto, in modo che le regole non siano ritagliate sui regolati. 6. Azzerare il caos, nominare un nuovo commissario e regolare competenze e allocazioni entro un mese. Se c’è armonia d’intenti fra il governo e il commissario è un tempo più che sufficiente. 7. Smontare la follia di un’agenzia che risponde a quattro ministeri e alla conferenza unificata, concentrando tutto alla presidenza del Consiglio, o dove questa riterrà di delegare.
Ci sarebbe un’ottava cosa, necessaria per l’igiene mentale e linguistica: proibire l’uso dell’espressione “agenda digitale”, giacché più la senti e più ti rendi conto che il suo unico contenuto è la boria di chi la usa. Serve un calendario preciso e non derogabile che scandisca lo smontaggio delle barriere e degli egoismi digitali (nonché della spesa pubblica e degli appalti) che hanno fin qui reso impossibile ai cittadini di disporre di un’identità e di un accesso unico, che si tratti di sanità, fisco o scuola. Serve certezza e libertà d’azione, non pompose sedi della confusione e della costrizione. Le soluzioni ci sono, sono facili, si fa in fretta e costano poco, per poi far risparmiare. Se non si agguantano è perché si trova più lucrosa l’arretratezza e più allettante la separatezza. Il governo Letta non durerà molto, ma per fare tutto questo ci vuole meno. A volerlo.
Pubblicato da Libero