Abbattere la pressione fiscale per dare fiato alla produzione e rendere competitiva la manifattura. Non è il sogno vano di un liberale insano, ma il patto che il presidente Barack Obama ha proposto ai repubblicani, con i quali si appresta all’ennesimo duello parlamentare per la fissazione del tetto (nel senso di renderlo sempre più alto) al debito pubblico. L’idea è quella di portare le tasse federali che gravano sulle aziende dall’attuale 35% al 28, per scendere al 25 se si tratta d’imprese manifatturiere. Dai 6 ai 10 punti in meno. Quel che dovremmo fare anche noi. Con una postilla: Obama non pensa di sbaraccare, ma di rafforzare il welfare state.
Stiamo parlando di tasse federali, cui poi si sommano quelle statali. Il paragone fra sistemi fiscali diversi non è semplice e qualche volta induce ad abbagli. Pertanto propongo di usare i dati della World Bank, relativi al Total Tax rate, vale a dire la percentuale di tassazione e imposizione contributiva che grava sugli utili aziendali: in Italia siamo ad uno spettacolare 68,3%, negli Usa al 46,7. Tanto per avere altri punti di riferimento: Germania 46,8; Regno Unito 35,5; Irlanda 26,4. Le nostre aziende competono, nel mercato globale, avendo un onere fiscale più alto, e in qualche caso doppio, e pagando il denaro (quando trovano credito) più degli altri, qualche volta il doppio. Meglio non dimenticarlo, anche per comprendere quanto grandi siano i meriti di continua a correre e vincere.
In occasione dell’ultimo G8, nel giugno scorso, si diede grande enfasi al comunicato congiunto, nel quale si manifestava l’intenzione di contrastare i paradisi fiscali. Qualcuno ci lesse una specie di assoluzione del nostrano inferno fiscale, mentre noi scrivevamo che la concorrenza fiscale esiste, è parte della globalizzazione e, pertanto, contrastare la concorrenza significa offrire di più e chiedere di meno. Le odierne proposte di Obama dimostrano che avevamo visto giusto (e, conseguentemente, quanti lessero il contrario presero una cantonata). Per evitare che capitali e produzioni fuggano all’estero non ci vogliono solo i poliziotti alla frontiera, ma anche servizi adeguati, giustizia che funziona e fisco non ostile. Gli operatori economici devono rimanere per convenienza, non perché minacciati. Non a caso il presidente americano parla non solo di defiscalizzazione, ma anche di semplificazione. Da noi già solo la seconda cosa sarebbe una rivoluzione, mentre, invece, quotidianamente affoghiamo nella palta dell’opacità e dell’indeterminatezza. In Italia essere in regola con il fisco comporta l’onere e la spesa aggiuntivi di capire cosa cavolo vuole il fisco e come diamine intende averlo.
Gli Usa si sono drammaticamente deindustrializzati. La storia di Detroit ne è una dimostrazione. Per questo Obama è costretto a correre per colmare un grave ritardo. Impiegherà anni. Da questo punto di vista noi siamo messi meglio, perché restiamo una potenza industriale. Ma se non ci muoveremo subito nella direzione americana, se non renderemo vivibile alle aziende l’ecosistema, prepareremo la sorte opposta: ci deindustrializzeremo mentre gli altri chiameranno le nostre aziende. Chi avesse dei dubbi può chiedere a Sergio Marchionne.
L’abbattimento fiscale comporterà una diminuzione del welfare? Obama promette l’opposto, dicendo: il surplus di gettito che raccoglieremo da qui alla riforma lo dedicheremo interamente a investimenti pubblici per le infrastrutture, l’occupazione e l’istruzione. Per capire cosa intendono sarà bene fare un salto a Chicago, dove il sindaco (Rahm Emanuel, democratico, ex capo di gabinetto di Obama) ha chiuso 52 scuole pubbliche perché di cattiva qualità. Ci sono state proteste in piazza, un bimbo nero è stato ripreso mentre arringava in favore dei diritti degli studenti e degli svantaggiati, qualche stupido ha scritto che si trattava di un “nuovo Obama”, invece era solo un bimbo istruito e strumentalizzato dagli insegnanti sindacalizzati. Il vero obamiano, il sindaco, ha chiuso le scuole e investito nei trasporti, per portare i ragazzi verso scuole migliori.
In tutto questo c’è, certamente, una buona dose di tatticismo politico. Sia per lusingare i repubblicani, senza il cui voto non passerebbe l’innalzamento del debito pubblico, sia per prepararsi alle elezioni di medio termine. Ma il cielo volesse che anche da noi ci fossero tatticismi di tal fatta, capaci di parlare di abbattimenti fiscali e efficienza nei servizi pubblici. A noi ci toccano rivali vocianti che urlano a turno contro un punto di Iva, salvo dimenticarsi che dovrebbero urlare allo specchio.
Pubblicato da Libero