Il passo in avanti è notevole: alla merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla l’inglese. Il decisionismo ha anche prodotto un’innovazione: non ci si limita ad appoggiare le scalate a opera di sconosciuti che operano dall’estero (come all’epoca dei “capitani coraggiosi”); non ci si produce in piani da suggerire e imporre ai diretti interessati (come all’epoca del “piano Rovati”); ora si pensa di procedere direttamente per decreto legge. Inglese più gazzetta ufficiale. Il bello è che il tema è sempre lo stesso: Telecom Italia. Prima da spolpare, trasferendo all’estero e ai privati la ricchezza degli italiani. Poi da indirizzare e sottrarre alla gestione dei proprietari, portando Marco Tronchetti Provera alle dimissioni. Ora da condurre al fallimento (in gran parte meritato), mediante rottamazione del solo asset che fa da garanzia all’enorme debito, la rete.
Spero non sfugga la curiosa coincidenza: assieme al trapelare di tale operazione apprendiamo che è pronto il fondo “salva imprese” (dei cui difetti e pericoli abbiamo già scritto), finanziato con soldi pubblici, che più nega di volere essere una nuova Gepi e più ce ne sfuggono le differenze, e che dovrebbe occuparsi, fra le prime cose, della crisi Sirti. Ovvero della società, un tempo Iri, che lavora(va) alle reti di telecomunicazione. Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i (falsi) trionfi di mercato finiscono con ristatalizzazioni.
Significativo, inoltre, che dopo avere provato a sposare Telecom Italia e Metroweb, la cui proprietà è riconducibile allo Stato, e dopo avere ricevuto un rifiuto, si supponga di operare con un decreto per rottamare la rete del mancato marito, rivalutando quella della sposa non impalmata.
Veniamo alla sostanza: avrebbe ragione il governo ad intervenire per promuovere il rimodernamento delle reti di telecomunicazione? Sì. Quell’arretratezza è una palla al piede dell’Italia. Tale intervento può e deve essere articolato su due fronti. Il primo consiste nel rimodernare la pubblica amministrazione e moltiplicarne l’offerta digitale. Più cose il cittadino può fare on line, più c’è domanda di reti digitali, più è conveniente investire nel renderle capienti e capillari. Il secondo fronte consiste nel rendere più convenienti gli investimenti, mediante defiscalizzazioni, e meno estenuanti le pratiche burocratiche. C’è una terza cosa che lo stato deve fare: produrre norme chiare (in gran parte d’importazione europea) e far rispettare le regole. Facesse queste cose, sarebbe da benedire.
Non servono decreti legge, però. Se si pensa a quello strumento è perché si ha in mente un altro mestiere: stabilire come devono essere fatte le reti, quali i programmi d’investimento, quale la redditività accettabile. Che è il mestiere delle imprese e del mercato. Scegliere fra fibra ottica e reti in radiofrequenza (o, meglio, sulla proporzione del mix) è il mestiere del mercato. Tanto che un privato s’è fatto avanti chiedendo di acquistare una società statale d’impianti televisivi, ricca di punti d’illuminazione. Si può ben dire di no, ma aggiungendo in quale altro modo mettere quella ricchezza al servizio della digitalizzazione delle reti. Se si risponde: no, perché abbiamo in mente un’altra rete, si va alla statalizzazione. Il trionfo dei mercati senza mercato.
Non mi stupisce che a questo antico mito italico si ritorni mediante anglofoni che usano il potere politico. Avverto solo che questo film lo abbiamo già visto. La prima versione era neorealismo ricostruttivo. La seconda temo sia un remake con sottotitoli. Per non capenti.
Pubblicato da Libero