Economia

MiniMalìa

MiniMalìa

Anche sul salario minimo si rischia l’ennesima malìa, fra magica aspettativa e inutile seduzione. L’ennesima sfida fra sbandieratori, non troppo attenti al significato dei vessilli che sventolano. Lo strumento è così vario che, al contrario del purgante che conoscemmo con Carosello, non “basta la parola”.

La prima questione è già equivoca in sé, ovvero dovere stabilire se quel minimo lo si iscrive in una legge o lo si regola con i contratti. L’opposizione e la Cgil, vorrebbero la prima cosa, mentre il governo, Cisl e Uil la seconda. Messa così non ha senso, perché i contratti collettivi esistenti hanno già un minimo retributivo applicabile, mentre ha senso parlare di salario minimo generale solo se la legge lo impone quale punto di partenza di ogni altra contrattazione. Quindi: a. in Italia esiste già per circa l’85% dei lavoratori dipendenti, assunti con contratti collettivi; b. se lo si vuole fissare per tutti occorre usare la legge. Solo che si usa “salario minimo” avendo ciascuno in mente ipotesi e rappresentazioni diverse.

Una cosa è la retribuzione minima consentita per ogni ora lavorata, altra la retribuzione minima consentita tenendo conto anche della tredicesima, del trattamento fine rapporto e di altri premi. Nel secondo caso la legge diventa uno strumento troppo rigido e non si può che cedere il passo alla contrattazione. Il che porta dritto allo stabilire il livello cui fissarlo. Mi pare ci si orienti sui 9 euro, ma anche questo significa poco se non si capisce cosa è compreso e cosa escluso. Dentro il mercato unico europeo, tanto per capirsi, si adottano salari minimi nazionali che vanno da circa 2 euro a poco più di 13. E ci vuole fantasia per supporre che si stia parlando delle stesse cose.

Sono diverse le regolamentazioni nazionali, ma anche il potere d’acquisto e il tasso d’inflazione. E questo vale anche dentro i nostri confini, sicché un salario minimo fissato a X sarà più alto dove il costo della vita è più basso e viceversa. Quindi non sarebbe uguale neanche fra due lavoratori italiani. Con uno strambo risultato: sembrerebbero favoriti gli italiani delle aree meno sviluppate, mentre buona parte di quelle tipologie salariali si concentra nei servizi, che si trovano prevalentemente nelle aree più sviluppate; mentre il lavoro in condizioni di sostanziale schiavitù, soprattutto nei campi, è e resterà in nero, quindi immune dal minimo codificato.

In queste condizioni supporre che il salario minimo cancelli il lavoro povero ha l’aria d’essere una pia illusione, rischiando, in alcune aree e settori di cancellare il lavoro, spingendo l’impresa fuori mercato. Tutto questo non significa né che le cose vadano bene come vanno, né che ci si debba rassegnare a che vadano male, significa, però, che portare il lavoro povero ad essere prima dignitosamente e poi lautamente retribuito non è una questione che si risolva tondeggiando le parole con cui compitare l’ennesimo decreto, destinato a sempiterna attesa della propria attuazione, bensì lavorando sulle ragioni profonde di quella condizione: 1. scarsa formazione del lavoratore, rimediabile, specie per i giovani, con il far funzionare non solo le scuole, ma anche gli aggiornamenti continui; 2. scarsa meritocrazia retributiva, che si rimedia con maggiore competizione ed elasticità del mercato del lavoro (che aiuterebbe anche il sindacato ad avere un ruolo più attivo nel lavoro e nel sottrarsi alla sorte presente, di rappresentare più che altro pensionati).

Perché la discussione abbia un senso è necessario, almeno, che si scriva sulla lavagna il significato delle parole, di modo da cogliere non solo le evocazioni sentimentali, ma le conseguenze fattuali delle posizioni di ciascuno. Altrimenti ci si muove nel solito “significante” lacaniano, il cui lato divertente è che quasi nessuno capisce quel che legge e dice, mentre quelli che dicono di capirlo o sono fra i re degli allocchi o concorrono per la corona degli imbonitori. La malìa non aiuta, fosse anche mini.

Davide Giacalone, La Ragione 4 luglio 2023

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