Per mesi e mesi ci si è lamentati dell’alto valore dell’euro, rispetto al dollaro, il che portava conseguenze nefaste sulle nostre esportazioni. Ora il dollaro ha ripreso a salire, e l’euro continua a scendere. Il ministro Urso commenta felice che si tratta di una boccata d’ossigeno per i prodotti italiani. Vero. Ma questa è solo una parte della verità, e neanche la più interessante.
Gli Stati Uniti hanno vissuto un lungo ciclo di ripresa economica e produttiva, alimentato dalla diminuzione del valore del dollaro, ma anche dalla diminuita pressione fiscale e dal finanziamento in deficit degli investimenti pubblici. Se un Paese debole adottasse una simile politica correrebbe il serio rischio di non trovare più credito sui mercati, di essere quindi spinto a coprire il deficit tassando i cittadini, con ciò stesso spezzando le gambe alla ripresa. Ma per un Paese politicamente forte le cose vanno in modo diverso, e, nonostante l’imponente debito pubblico e l’ampliamento costante del deficit, gli Stati Uniti hanno continuato ad attirare capitali.
Intanto una prima osservazione: nello stesso periodo l’Unione Europea ha fatto l’esatto contrario, cercando di contenere il deficit e comprimere il debito di ciascun Paese, impedendosi, pertanto, di finanziare lo sviluppo e, oltre tutto, impedendosi anche di diminuire il carico fiscale che pesa sulle spalle di produttori e consumatori. Adottando una condotta opposta a quella statunitense l’Unione s’è vista l’euro salire alle stelle, penalizzando le proprie merci, ma spedendo turisti felici a visitare le vie dello shopping americano. La cosa sensazionale è che con l’euro alle stelle attiravamo meno capitali degli Stati Uniti, perché l’aspettativa di guadagno era superiore dall’altra parte dell’Atlantico (tra parentesi, l’11 settembre non è stato l’inizio, ma la fine della crisi statunitense).
Il rialzo dei tassi americani segna ora la fine della festa? Neanche per sogno, riapprezzando il dollaro, senza per questo infliggere colpi al sistema produttivo, gli statunitensi premiano chi investe nella loro area, premiano i capitali che viaggiano verso le loro sponde, acquistano nuove quote di debito verso il mondo, offrendo in cambio la stabilità del sistema, il dinamismo del mercato e la speranza di lauti guadagni. Questa loro scelta spinge in basso l’euro, e noi ci diciamo soddisfatti, tiriamo una boccata d’aria, ma sembra quasi che non ci si renda conto del dato politico più rilevante: siamo in balia delle decisioni altrui.
Dietro il dollaro c’è un Paese e c’è un governo, dietro l’euro c’è la speranza di una federazione e quattro presunti tecnici cui è stato messo il cappello di banchieri. Voliamo con il pilota automatico, ma ci siamo dimenticati di aggiornarlo sulla destinazione.
Avremmo bisogno di attirare capitali che vogliano scommettere sulla ricerca scientifica e sull’innovazione, non potendo certo attirarli con la convenienza della produzione, invece ne spendiamo per finanziare la chiusura e la conservazione. Siamo ricchi, consumiamo alla grande, ma siamo meno dinamici degli statunitensi ed assai meno numerosi e produttivi dei cinesi. Se continueremo a non avere una politica economica che possa definirsi tale, se continueremo a dipendere dalle scelte altrui, alzandoci la mattina e gioendo per il sole o incupendoci per il grigio, perderemo la competizione con gli Usa e non basterà la buona volontà e la fantasia per eguagliare la prolificità cinese. Morale, decadiamo. E decadiamo senza che vi siano altri colpevoli che noi stessi e la nostra miope ed egoistica voglia di conservare privilegi senza accettare sfide. La politica europea è lo specchio nel quale si riflette tanto opulento mosciume.