Economia

No bad power

No bad power

Alitalia e Telecom hanno in comune una cosa: le grandi banche italiane hanno sostenuto operazioni dette “di sistema”, rivelatesi fallimentari. Alitalia, che è privata (nonostante l’improvvido ingresso di Poste), prova a vendere a Etihad, compagnia degli Emirati Arabi, con la mediazione del nostro governo. Doppio pasticcio: a. avendo la collettività già pagato i debiti pregressi, garantito rotte e assicurato la cassa integrazione, ora torna a farsi garante di un affare che dovrebbe riguardare solo il privati; b. la trattativa s’inceppa perché i conti non tornano. Abbandonati i sogni della compagnia di bandiera, messi in fuga i capitani coraggiosi, creata una condizione in cui gli imprenditori sono in minoranza e la maggioranza è di banche e Poste, resta solo l’obiettivo di non perdere tutti i soldi che sono stati colà messi.

Telecom è una storia diversa e convergente. Era una società a partecipazione statale, è stata venduta nel peggiore dei modi immaginabili, i privati l’hanno spolpata e riempita di debiti, dopo di che è stata affidata a una finanziaria, Telco, retta da un accordo fra la spagnola Telefonica e i soliti soggetti “di sistema”. Risultato: la società regredisce, Telco è finita in minoranza all’ultima assemblea, ciò non di meno conserva una falsa maggioranza in consiglio d’amministrazione (a causa di una limitazione autoimposta ai fondi, che potevano votare solo i propri tre candidati), in ogni caso quel pacchetto di controllo sarà sciolto entro giugno. Il governo non potrà considerarsi estraneo alla faccenda, perché esiste ancora la golden share, vale a dire il diritto di mettere becco su nuovi soci stranieri. Gli unici a potere assicurare un futuro non agonico alla società.

Questi due casi, questi due fallimenti, insegnano che è finita l’era dei patti di sindacato. E’ finita, prima di tutto, perché sono stati usati non per difendere le società dagli assalti esterni (come Enrico Cuccia li concepì, quando per “esterni” non si intendeva necessariamente stranieri, ma anche per difendere il capitalismo privato da quello pubblico), mentre da tempo li si pratica solo per difendere gruppi dirigenti incapaci e interessi economici che non si identificano con il successo della società. Non è un caso che nei consigli d’amministrazione, frutto di quei patti, non siedono più soggetti che conoscono quello specifico mercato, ma rappresentanti d’interessi finanziari. E’ finita, l’era dei patti di sindacato, anche perché la globalizzazione mette in circolo forze economiche potenti, non più arginabili con quelle dighe.

E’ finita ovunque, in Europa? No. In Francia e Germania (per citare i paesi più dimensionalmente paragonabili) ancora si pratica la difesa dei campioni nazionali, ma lo si fa con capitali pubblici e presenza dei governi (vuoi direttamente o tramite istituzioni apposite). Noi abbiamo fatto finta di ballare al suono del liberismo e del capitalismo, mettendo nella banda solo suonatori indicati da banche e politica. Per questo registriamo un doppio fallimento. A chi fosse sfuggito: le recenti nomine ne sono la conferma, perché abbondanti di marcatura ma carenti d’indirizzo politico, quando c’è rivolto alla statalizzazione e non al contrario, mancanti di obiettivi definiti e, quindi, di successive misurazioni circa il successo. Poi, se volete, possiamo anche passare il tempo a parlare delle quote rosa. Posto che più che altro trattasi di figlie.

A questo si aggiunga che le banche, avare di credito verso le imprese che tirano, sono prodighe di partecipazioni che ne frenano, e talora franano i conti. Morale: il potere interno si sta sgretolando. Anche qui: possiamo passare il tempo a praticare il Suq della tassazione della rivalutazione delle quote Banca d’Italia, con il governo che impone, tonitruante, il 26% (dopo che per decreto si era stabilito il 12). Gettito esistente solo nel 2014, mentre resta il problema degli aumenti di capitale nelle banche.

Per salvare il potere interno (e va fatto) non serve puntellare quel che si sfarina. Quei modelli sono perdenti. Serve accorgersi che c’è un’Italia fenomenale, di gente bravissima, imprenditori e lavoratori, che fanno risultati nell’export, nonostante lo svantaggio dei tassi d’interesse. E’ a quell’Italia che va intestata la nuova architettura, il che comporta l’agevolazione dell’ingresso, anche straniero, nel capitale di rischio. Smettendola di proteggere i perdenti dai rischi cui li espongono gestioni fallimentari. E, detto in modo ruvido, chiarendo subito che si può anche fare una bad bank per assorbire i crediti deteriorati, ma non quelli derivanti da bad operations per brama di bad power. Non è proibito organizzare comitive per far finta d’essere imprenditori, deve essere proibito metterne i risultati in conto al contribuente.

Pubblicato da Libero

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