Economia

Non a rate

Non a rate

C’è qualche cosa di stolto nel modo in cui si tiene la contabilità dei ratei Pnrr in arrivo. È stato incassato il terzo, dovrebbe arrivare il quarto e siamo sicuramente in ritardo. Niente di drammatico o irrimediabile ma, rispetto alla tabella di marcia stabilita, siamo in ritardo. Supporre che l’intera partita si giochi e concreti nel giudizio che può essere dato sul governo e sulla sua capacità esecutiva è folle. Per la maggioranza e per l’opposizione.

È bello sentire dire dalla presidente del Consiglio che si sta andando avanti positivamente, in uno spirito di collaborazione fattiva con la Commissione europea. Quanto erano diverse le parole di appena ieri. E va benissimo. Ma l’arrivo della rata non è una specie di voto di fiducia spedito da Bruxelles, mentre la fiducia esterna nella capacità italiana di risolvere i propri problemi si misura con il tasso d’interesse che paghiamo sul debito e, purtroppo, da lì non giungono segnali entusiasmanti.

È un merito del governo il rispettare – non senza fatica – gli impegni presi dall’Italia (sarà bene ricordare che i governi cambiano, però l’Italia è una sola), ma il cimento vero sarà l’apertura dei cantieri materiali, mentre quelli immateriali, relativi alle riforme, sono colpevolmente indietro. Ed è questo secondo cantiere, i cui lavori dovrebbero fervere in Parlamento, che ci porta a guardare verso l’opposizione: se pensa di cavarsela continuando a mugugnare che quanto fatto dal governo non è mai abbastanza, lisciando il pelo a chiunque chieda più spesa corrente, sarà venuta meno al proprio dovere di rappresentare un’alternativa. Il che si specchia nella risposta stereotipata che arriva anche dal governo: neanche “quelli di prima” hanno fatto questa o quella cosa. Il che, tralasciando il fatto che quelli di prima furono anche loro, segnala un desiderio di uguaglianza che fa a botte con la pretesa di diversità.

Se l’opposizione attende il fallimento del governo in carica sul Pnrr, si comporta in modo irresponsabile. Oltre che inutile. I numeri chiariscono il perché: dalla Banca d’Italia in giù, nel corso delle audizioni parlamentari sono molti i soggetti che, autorevolmente, confermano quel che qui osservammo dopo la pubblicazione dell’aggiornamento dei dati economici, ovvero che quei conti rischiano d’essere fantasiosi. Un debito che, in rapporto al Prodotto interno lordo, cala dello 0,1% ma a condizione che il 2024 segni una crescita del Pil pari all’1,2% già comunica che, essendo difficile la seconda cosa ed essendo microscopica la prima, è facile che l’obiettivo sia mancato. Ove questo si dovesse accompagnare a un ulteriore rallentamento o – il cielo non voglia – inceppamento del Pnrr, allora sarebbero guai seri, perché il ritardare o il venire meno di quella massa di investimenti porterebbe a una crescita ancora inferiore, facendo saltare ogni equilibrio.

Il governo, quindi, dovrebbe impegnarsi nel taglio della spesa corrente (come dice di volere fare) non per generarne di nuova e ulteriore – che a spendere si fa in fretta e a tagliare poi non si riesce – ma per allargare quello 0,1% fino a un margine di ragionevole sicurezza. Spiegando agli italiani che spendere di più non significa distribuire più ricchezza, ma prepararsi a sottrarne con prelievi fiscali indotti dall’aumento del costo del debito. Mentre l’opposizione dovrebbe tallonare il governo, assicurandosi che non metta in conto a tutti il prezzo delle promesse impossibili con le quali prese i propri voti.

Gli scontri politici sarebbe invece bello vederli sulla legge per la concorrenza (possibilmente in una gara a chi cerca maggiore libertà e discesa dei prezzi, non a chi protegge più corporazioni e rendite), sulla riforma meritocratica e non solo declamatoria della scuola, sulla giustizia che non è un affare privato dei magistrati e così via andando.

Le guerre – che ora ce ne sono due capaci di coinvolgerci direttamente – agiscono da stabilizzatori, mettono in secondo piano gli squilibri finanziari, ma non li risolvono e li aggravano. Servono politiche con un respiro superiore a quello della prossima scadenza elettorale. E non a rate.

Davide Giacalone, La Ragione 11 ottobre 2023

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