Economia

Non basta galleggiare

Non basta galleggiare

Passare dalla depressione all’euforia è segno di malattia mentale. Capita nel racconto delle cose economiche, dove una crisi, prima descritta come epocale, si pretende esaurita in pochi mesi. Capita in politica, dove un giorno si dice che non ci sono problemi e quello appresso non si escludono le elezioni anticipate. Di solito, chi vive questi squilibri ha un problema di fondo: non riesce a fare i conti con la realtà.
Le graduatorie economiche vanno prese con le molle, perché tentano di misurare cose diverse con lo stesso metro e tendono a semplificare problemi complessi. Due appena uscite, però, ci aiutano a capire di cosa si dovrebbe parlare, che cosa stiamo colpevolmente trascurando. La Banca Mondiale ci pone al 78esimo posto, su 183, circa la capacità e possibilità di far vivere le imprese. Se si guarda dentro la ricerca, però, si trovano cose significative e, purtroppo, ovvie: siamo al posto 156 per quel che riguarda il rispetto dei contratti, giacché la nostra giustizia civile è incivile; al 135 in tema di tasse, troppo alte e troppo difficili da gestire; al 99 nel mercato del lavoro, ingessato e intricato di norme inutili; al 98 per il registro di una proprietà, che è l’esempio di una pubblica amministrazione che tortura il cittadino, anziché agevolarlo. Se si considerasse solo la capacità di chiudere un affare, quindi solo i meriti di chi nel mercato opera, saremmo in un brillante 29esimo posto.
Di rincalzo, il World Economic Forum ci mette al 48esimo posto, su 133, in quanto a competitività generale. Gli ultimi del G7, in coda a tutta l’Europa, quella ex comunista compresa. Anche qui, guardando dentro, si vedono subito i punti di sfascio: mercato del lavoro “fra i più rigidi al mondo”, debito pubblico, crimine organizzato, “percepita assenza d’indipendenza del sistema giudiziario”. Tutta questa roba non è nata nel corso della crisi, in pochi mesi. Sono svantaggi competitivi cresciuti nel tempo e sono la causa di quindici-venti anni di sviluppo inferiore a quello dei Paesi direttamente paragonabili.
Con un risvolto micidiale: risaliremmo le graduatorie se contabilizzassimo anche l’economia sommersa, che, però, non è solo segno d’evasione fiscale e previdenziale, sfuggendo così ai pesi che rallentano la corsa dei “regolari”, ma di progressiva extraterritorialità criminale. Così andando, giungeremo al paradosso suicida di vedere un pezzo d’Italia più competitivo, ma inesorabilmente fuori legge.
Dopo di che, possiamo gingillarci con le palle di vetro o con gli indici economici, proclamando, a giorni alterni, l’allungarsi della crisi o l’approssimarsi della ripresa, ma se non mettiamo mano a quei problemi, se non riformiamo brutalmente la giustizia, se non regoliamo ragionevolmente il mercato del lavoro o non interveniamo sulle pensioni, se non rivoluzioniamo un sistema dell’istruzione che tiene i nostri ragazzi più a lungo in classe, per poi restituirceli fra i più somari, se non facciamo tutto questo resteremo totalmente in preda ai marosi. Quando sale la marea saliremo anche noi, e scenderemo quando cala, ma come un sughero, in attesa di consumarsi, spiaggiarsi o divenire irrilevante. Ci vorrebbe una politica non di sughero, mentre oggi è già considerata una conquista che non si sfasci ed inabissi.

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