Economia

Numeri non parole

Numeri non parole

Sembra che le parole abbiano perso il loro reale significato, sicché vi propongo dei numeri, in modo che ciascuno possa dedurne quel che crede. Il ministro dell’economia, Vittorio Grilli, ha sostenuto che ci sarà “un’accelerazione dell’economia nella seconda metà del 2013”. Lo stesso presidente del Consiglio, Mario Monti, sostiene che a partire dall’anno prossimo si tornerà a crescere. Mi domando se leggono i documenti che firmano. E prima di sintetizzarne il contenuto chiedo un accordo sulla logica: se quando si precipita si riesce, ad un certo punto, a rallentare la caduta, è certamente un fatto positivo, ma se si va in giro a dire che s’è cominciata la risalita s’accede all’arte dell’imbroglio.

La Nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza), presentata dal governo, lascia pochi margini ai dubbi: l’anno in corso si chiuderà con una recessione più forte del previsto (-2,4 anziché -1,2, quindi il doppio, in negativo) e l’anno prossimo non sarà di ripresa (era previsto un + 0,4) ma di ulteriore recessione (-0,2). Il prodotto interno scende, diventiamo più poveri e non vedo come si possa sostenere che questi dati dimostrino il vicino inizio della ripresa. Ce ne sono altri, ancor più crudeli.

I consumi si ridurranno del 2,6 quest’anno e dello 0,7 nel 2013. Quindi più del pil (tenetelo a mente, perché i conti devono tornare), mentre la spesa delle famiglie scenderà, a fine 2012 del 3,3%. Il Def prevedeva che gli investimenti fissi lordi scendessero del 3,5, invece scendono dell’8,3. Nel campo di macchinari e attrezzature siamo a -10,6. Come premessa alla ripresa, non c’è male. La disoccupazione arriverà al 10,8 nel 2012 (un punto e mezzo più del previsto, al netto del fatto che queste percentuali sono certamente sottostimate, dato che non sono contabilizzati i lavoratori che non lavorano, ma percepiscono parte del salario), sarà all’11,4 nel 2013, all’11,3 nel 2014 e nel 2015 giungerà ad uno 0,1 più di quest’anno. Alla faccia della ripresa.

L’indebitamento netto continuerà a crescere, mentre il pareggio di bilancio nel 2015, in queste condizioni, ce lo scordiamo. Tanto che è previsto, per quell’anno, un deficit dell’1,4%. Il rapporto debito-pil è di 126,4 quest’anno, sarà 122,9 nel 2015. Tradotto: ci saremo svenati per restare allo stesso punto. Nel frattempo, se non saremo riusciti ad ottenere una diversa contabilizzazione della stabilità, o una forma qualsiasi di federalizzazione del debito, saremo saltati.

Dove vanno a finire i nostri soldi, dove quelli dei consumi che si contraggono più della ricchezza? Eccoli: la pressione fiscale cresce quest’anno di 2,2 punti, rispetto al 2011, per crescere ancora nel 2013. Scusate la carrellata di numeri, ma servono per dire che non tutte le opinioni sono ammissibili. Nel senso che non è lecito raccontarli come se documentassero la ripresa. Ci aspettano anni duri, sicché è lecito chiedersi se la cura adottata è quella giusta. E non lo è. L’“agenda Monti”, ammesso che qualcuno sappia cosa questa espressione significhi, è il mero mantenimento dell’esistente, prefigurante un progressivo impoverimento. Il professore è certamente più presentabile di una classe politica degradata e degradante, ma la sua ricetta non funziona.

Se davvero vogliamo parlare di ripresa, senza per questo strologare di rivoluzioni internazionali e uscite dall’Europa, dobbiamo mettere potentemente mano a tutto quello che non si sta facendo: dismissioni di patrimonio, abbattimento del debito, diminuzione della pressione fiscale, deburocratizzazione, liberalizzazioni, concorrenza, meritocrazia. L’Italia che corre ed eccelle esiste ancora, ed è grazie a quella che ci reggiamo in piedi. Ma va scatenata, va lasciata libera, ben oltre quel che fu. Se, invece, ci picchiamo di praticare la politica del salasso fiscale, sorretto da uno stucchevole e disonesto moralismo colpevolizzante (con l’Agenzia delle entrate che ci ruba un miliardo di sola iva non dovuta, con il soldo tolto a chi lo consumerebbe per darlo a chi lo fa evaporare), allora sia chiaro che quei dati sono una inesorabile condanna al declino. Di cui fa parte, del resto, l’uso falso delle parole.

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