Economia

Occupati a imbrogliarsi

Occupati a imbrogliarsi

Imbrogliare e imbrogliarsi, sul lavoro, non è solo poco commendevole, è anche sciocco. Certi trionfalismi fuor di luogo rendono stucchevole anche quel che è positivo, comportando un saldo negativo di credibilità.

L’aumento dei contratti di lavoro intestati alla recente riforma (Jobs Act) è positivo. L’ho sempre considerata favorevolmente e i dati ne confermano il successo. Ma non si tratta di nuovi posti di lavoro, perché nella gran parte sono contratti sostitutivi di altre tipologie, e non si tratta di aumento della stabilità, perché la natura della riforma consisteva proprio nel cambiare il concetto di “tempo indeterminato”, togliendogli le rigidità (che taluni chiamano “garanzie”) del passato. Se si va strombazzando che i nuovi contratti sono il segno dell’Italia che riparte e del crescere dell’accresciuta stabilità del posto di lavoro, si occultano e cancellano gli elementi positivi della riforma. In che, da parte dei loro autori, non è solo truffaldino, ma anche autolesionista. Ha ragione Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, a ricordare che si tratta della più massiccia trasformazione contrattuale (lui dice “stabilizzazione”, per il citato vizio) dal 2007. Vero, quella di prima la si deve alla legge Biagi. Sarà bene non dimenticare quel che comportò. Come sarà il caso di ricordare che a opporsi fu la sinistra.

Tanti contratti sostituiscono i vecchi perché i nuovi non contengono più impegni senza limiti di tempo e sono favoriti dalla decontribuzione. Bene, questo non dimostra che l’Italia riparte, ma che quella già in viaggio non si lascia sfuggire le occasioni favorevoli. Anche questo è un fatto positivo, sempre a condizione di non manometterlo. Il problema non è quell’Italia, ma l’altra, quella che va a rimorchio.

Abbiamo ricordato tante volte che il dato decisivo non è la disoccupazione, ma l’occupazione. In Italia lavoriamo troppo pochi e troppo poco. Fra i 15 e i 64 anni lavora il 55.7% degli italiani, mentre la media Ue è del 65%. Peggio di noi fanno solo la Grecia e la Croazia. I dati che seguono non me li hanno dati i gufi, ma le tre civette sul comò, perché è il governo in carica ad avere annunciato alla Commissione europea che, nel 2020, lavorerà il 67% degli italiani. Peccato che la Germania arriverà al 77.7 nel 2017, mentre la Francia (che è un malato, mica un atleta) fra due anni sarà al 69.8%. Secondo i dati governativi, quindi, fra cinque anni avremo più lavoratori, in percentuale, di due soli paesi europei: la Croazia e Malta. Che son soddisfazioni.

Questi dati, per noi pessimi, nascondono un tesoro: se lavorando così poco e così in pochi restiamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa, pensate cosa potremmo fare se chiamassimo al lavoro quelli che ne soffrono la mancanza (e quelli che si godono l’essere mantenuti). Per farlo, però, abbiamo bisogno mica di trastullarci con le pinzillacchere statistiche sulle trasformazioni contrattuali, ma di iniettare nel sistema dosi massicce di deregolamentazione, decontribuzione e defiscalizzazione. Al tempo stesso drenando il veleno delle rendite, dell’assistenzialismo e del vivere sul groppone altrui. Ci vuole cento volte quel che si è fatto, ecco perché è preoccupante il vederlo dimezzare, nel suo reale significato. Togliere vincoli e tagliare trasferimenti non sono due politiche da farsi in tempi diversi, sono la medesima politica, da farsi subito.

Ad esempio: le trasformazioni contrattuali, innescate dalla riforma, vanno scemando, il che è del tutto fisiologico, anziché intignare, finanziandone il galleggiamento, sarebbe saggio cambiare marcia, finanziando la decontribuzione non più delle trasformazioni contrattuali, ma dei nuovi posti di lavoro. Quali che siano. E senza riferimenti geografici, come va di moda in questa estate di ritrovati conformismi falso meridionalistici. Il lavoro non lo creano le riforme, che servono a rendere più competitivo un Paese, ma la produzione. Se non vogliamo che chi funziona si limiti a cambiare il cappello ai propri dipendenti dobbiamo rendere conveniente assumerne altri, diminuendone il costo. Certo, calano anche le garanzie. Ma è un grandioso affare, rispetto alla garanzia della disoccupazione.

Pubblicato da Libero

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