Lo scontro attorno alla “Protezione Civile servizi SpA” è surreale, da solo basta a raccontare la pochezza di una classe dirigente che s’affanna a scantonare i problemi, sperando solo di trarne spunti per la propaganda. C’è chi dice, come la sinistra, che non s’ha da fare e chi, come il governo, che, effettivamente, non si farà. Peccato che si sia già fatta, con un decreto legge pubblicato il 30 dicembre scorso, dopo aver passato i preventivi vagli di regolarità e costituzionalità. Essendo, il decreto, l’atto costitutivo della nuova società, adesso, tutt’al più, si può scioglierla. Chi avesse letto il testo del decreto, all’articolo 16, già saprebbe, del resto, che la società non ingloba affatto il dipartimento della protezione civile, ma ne diviene uno strumento operativo. Resta da stabilire, lo vedremo appresso, se si tratta di cosa utile. Chiarito ciò, insisto: il decreto, la società, come anche le inchieste giudiziarie sono solo il dito, magari sporco, e non solo di marmellata, ma la luna è il gigante che tutti fanno finta d’ignorare: le regole degli appalti pubblici.
Guido Bertolaso, rispondendo alle domande postegli da la Repubblica, sostiene, fra le altre interessanti cose, due punti rilevanti: a. l’uso delle procedure relative alla protezione civile è essenziale ogni qualvolta il fattore tempo è decisivo, per la realizzazione di un intervento pubblico: b. governi e legislatori, quale che sia il colore della maggioranza politica, non hanno neanche preso in considerazione l’opportunità di rivedere la normativa delle opere pubbliche. Il primo punto è sconfortante, perché si considera determinante il tempo solo quando ce n’è poco, mentre la tempistica contrattualizzata dovrebbe essere sempre imprescindibile. Detto in modo diverso: non solo si deve essere precisi quando un’opera deve essere conclusa in fretta, ma anche quando si stabilisce che un ospedale si fa in due anni, e poi se ne impiegano dieci. Il secondo punto conferma lo sconforto, perché amministratori pubblici e funzionari vengono lasciati soli a vedersela con una pazzotica regolarità formale, talché o le opere si fermano, perché nessuno si assume la responsabilità di firmare un atto, oppure capita che procedano quelle in cui qualcuno s’è venduto, adoperandosi così perché le cose vadano avanti.
Il mondo degli appalti pubblici, così procedendo, è divenuto una greppia cui tutte le imprese vogliono accedere, non solo per la legittima aspirazione a far lavori che portano lucro, ma perché non necessariamente guadagni e opera vanno di pari passo. E’ cresciuta una fascia professionale di “facilitatori”, che s’è specializzata nell’accedere alle decisioni pubbliche, com’è cresciuto il numero dei giuristi (spesso consiglieri di Stato) esperti in codicilli che aggirino problemi di operatività o copertura di spesa, ma non è cresciuto il numero delle opere concluse e consegnate ai bisogni dei cittadini. A fronte di ciò si dovrebbe, se il Paese fosse governabile e governato, cambiare le regole e far convivere l’autonomia della decisione politica con il controllo di regolarità. Faccio un esempio: se costruire o meno un ospedale, dove e con quali specializzazioni, è una decisione politica, la cui legittimità deve essere giudicata dagli elettori; stabilire quanto devono essere larghe le finestre e quanti i primari, invece, sono decisioni tecniche, sottoponibili al vaglio di regolarità formale e sostanziale. Ciò presuppone, però, che l’ospedale esista. Noi, invece, mescoliamo decisioni politiche e tecniche, portando molti soggetti a svolgere ruoli impropri, aumentando le cointeressenze sospette e subordinando la realizzazione al consenso di tutti. Alla fine: spendiamo i soldi, magari qualcuno incassa pure la mazzetta, ma l’ospedale non c’è.
I governi, nel tempo, anziché affrontare il problema hanno aperto un’uscita di sicurezza: la protezione civile incaricata di eventi non frutto di disastri. La protezione civile, così, ha visto crescere sia le proprie attribuzioni che il proprio potere. Alcune delle cose fatte sono ammirevoli, straordinarie, ma l’insieme è la dimostrazione di un male, non la sua cura. Spingersi oltre, su questa strada, significa creare due stati paralleli: uno formale, sempre più vuoto e uno sostanziale, cui si delega molto. Non è una condotta saggia. Le regole vanno cambiate, non aggirate.
Come? Le società per azioni a intero capitale pubblico non sono un buon modo. Le società per azioni a capitale misto, magari quotate in Borsa, come le municipalizzate, sono dei mostri. La via sana è portare lo Stato a fare quel che gli compete, lasciando al mercato l’operatività. E’ lo Stato, nelle sue varie articolazioni e funzioni, che stabilisce cosa deve essere fatto, in quanto a opere pubbliche, e, in modo trasparente, determina i costi e assegna l’appalto. In modo altrettanto trasparente, quindi con un flusso continuo d’informazioni, segue i lavori, controlla i tempi e penalizza, in moneta sonante, i ritardi e le mancanze. Lo Stato decide e controlla, e se il controllore, la persona o l’ufficio incaricato, non dico si lascia corrompere, ma va a pesca assieme al controllato, di ritorno gli offriamo una grigliata in galera. Non devono circolare neanche inviti allo stadio, perché l’interesse pubblico consiste nel rendere virtuosa e premiata la severità del controllore.
Sono solo parole, lo so. Occorrerebbe ben altro spazio per entrare nel dettaglio. Ma questo è lo schema che può portare ad avere uno Stato minimo nella struttura e forte nell’azione. Senza riforme serie e profonde si è costretti, ogni giorno, a trovare un accomodamento, un compromesso, finché si mette un piede su sostanze scivolose e maleodoranti. A quel punto, che volete, le originarie intenzioni lasciano il tempo che trovano.