Economia

Orgia Bankitalia

Orgia Bankitalia

Il minestrone Banca d’Italia passa da acido a velenoso. L’avevamo detto e scritto, ma è ben magra consolazione. Gli aspetti orridi diventano evidenti anche a chi non ha voluto sentire e vedere. Qui troverete anche quelli comici, in omaggio al motto: castigat ridendo mores (posto a corredo, del resto, di un italico busto arlecchinesco, portato in Francia per volontà di Mazzarino). Cerchiamo anche di capire come se ne può uscire.

Partiamo dalle cose divertenti, si fa per dire. Com’è finito l’iter legislativo si sa: a schiaffoni, ghigliottine, fiducia e conversione del decreto. Terminati i ludi parlamentari, però, non è chiaro cosa debbano fare le banche, ovvero come devono trattare, a bilancio, quelle che (come scrivemmo per settimane) erano quote loro intestate fiduciariamente e sono divenute partecipazioni azionarie. L’Associazione bancaria italiana, quindi, ha deciso di chiedere il parere di due professori assai quotati, sia per competenza che per influenza: Piergaetano Marchetti e Angelo Provasoli. Il primo, secondo quanto riferisce il Sole 24 Ore, sostiene chiaramente che non si tratta della rivalutazione delle quote, attribuite nel 1936, ma di un asset, di un bene del tutto nuovo. Ha ragione, letteralmente da vendere. Proprio perché il risultato è un asset nuovo si dimostra quanto fossero fondate le nostre obiezioni e sbagliate le risposte del governo (di allora, ma a votare il decreto è stata la medesima maggioranza che sostiene l’odierno). Il secondo aggiunge: se è corretto che sono asset nuovi, allora possono essere considerati available for sale, in conto vendita. Morale: le banche possono mettere la posta in bilancio già per il 2013, anno in cui fu emanato il decreto, salvo dovere vendere ciò che eccede il 3%. Due professoroni per arrivare dove noi avevamo lasciato i nostri lettori, al modico prezzo di 1,20 euro.

Gliecché, però, la Banca centrale europea s’era già indispettita e offesa, per essere stata consultata all’ultimo minuto e perché il decreto era stato emanato prima della risposta. E scrisse che se non si chiarisce in che modo, e a che prezzo, la Banca d’Italia avrebbe dovuto procedere al riacquisto delle proprie quote, quelle non avrebbero avuto alcun valore nei bilanci delle banche. Della serie: tu dici che casa tua vale un milione, ma se non trovi qualcuno disposto a dartelo io non ci credo, e se scrivi che tanto se la riprende il costruttore, devi dirmi come, quando e quanto pagherà. Altrimenti è fuffa. Ora arriva di rincalzo la Commissione Ue, allertata da un’interrogazione di Niccolò Rinaldi (parlamentare europeo dell’Alde, di antica scuola repubblicana), talché il vicepresidente preposto alla concorrenza, Joacquin Almunia, si limita a porre delle domande. Scomode, però.

I punti sono due: a. se i soggetti che possono comprare sono solo italiani, come recita il decreto, state violando il Trattato di Roma? b. se pagate con i soldi della banca centrale, quindi della collettività, ciò che prima avevate messo in alcune vostre banche (manco tutte, ma una minoranza), questo turba la concorrenza e concreta un aiuto indebito? Sono solo domande. Ma ti voglio vedere a rispondere, perché sono esattamente i punti per i quali scrivemmo che il decreto era un obbrobrio. La cosa paradossale è che tedeschi e francesi mettono carrettate di soldi pubblici nelle loro banche e nessuno ne chiede loro conto, perché lo Stato è azionista delle stesse, mentre noi finiamo nei guai a causa di quattro presuntuosi arroganti, di cui due presunti banchieri e due presunti governanti.

Come se ne esce? Difficile, perché il decreto è legge. Malauguratamente. Ci sono due strade. La prima consiste nel farne oggetto di scontro con la Commissione prima e con la Bce dopo (scordiamoci che la Bundesbank molli l’osso, tanto più che ha ragione). Renzi si carica il cadavere di Letta. Si può spuntarla, ma con notevoli danni, visto anche che, al momento, per metterci una pezza, si stanno coinvolgendo la vigilanza, la Consob e Assirevi, in una scomposta orgia fra consulenti e autorità controllanti e indipendenti, che di tale natura perdono anche la finzione. La seconda strada è dolorosa, ma onesta: se le banche azioniste (sia stramaledetto il decreto) riescono a vendere le loro azioni eccedenti ad altre banche o assicurazioni radicate in Italia, buon per loro, iscrivendo a bilancio il valore di mercato; se non ci riescono, entro due anni, quelle azioni tornano alla banca centrale, ma al valore storico. Come dire che s’è fatto un gran casotto per niente. Ma meglio per niente che per perdere soldi, distruggere patrimonio e prendersi anche dei ceffoni.

Pubblicato da Libero

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