Parliamo di pentaeconomia. Li abbiamo sempre presi sul serio, gli ortotteri, perché il consenso degli elettori va seriamente considerato. Rifuggire dagli anatemi non significa abbracciare fedi altrui, però. La volgarità del linguaggio politico, cui i pentastellati hanno dato un solido e negativo contributo, induce a confondere il rispettoso argomentare con l’aderire nella sostanza. Il guaio è che la sostanza programmatica del Movimento 5 Stelle non è sempre limpida. Per il più è sfuggente. A questo punto della loro storia, però, sei punti sembrano fissati, in tema di economia. Vediamoli.
1. Chiedono che la Banca d’Italia sia di proprietà pubblica. E’ una battaglia che qui impostammo, tre anni fa, accorgendoci (e scrivendolo) che i soli a seguirla con determinazione furono loro, i pentastellati. Premesso che, nel mondo, esistono banche centrali a proprietà pubblica e privata, funzionando tutte nello stesso modo, perché la loro autonomia è tutelata dalla legge, non dall’azionariato, in Italia si è commesso l’obbrobrio di rivalutare il capitale di Bankitalia nel portafoglio degli azionisti, che erano già privati e già non contavano né rischiavano nulla. Mancano sei mesi, dopo tre anni, e l’assetto stabile e legale di quel capitale ancora manca. Se si tornasse (non ci credo) all’idea del capitale pubblico, se i frinenti vincessero questa battaglia, ci si ricordi di due corollari: a. farsi restituire dalle banche intestatarie la differenza rivalutata del capitale; b. restituire a quelle banche il carico fiscale che per quella rivalutazione pagarono.
2. Vogliono il reddito di cittadinanza. Ogni volta che se ne parla razionalmente si scopre che l’interlocutore voleva dire una cosa diversa. La prima cosa che devono fare, quindi, è definirlo in modo inequivoco. Se si tratta di un reddito per tutti, in virtù del solo essere nati e non ancora morti, è una follia pauperistica, che non solo presuppone la crescita o della pressione fiscale o del debito (entrambe già demoniaci), ma promuoverebbe la nullafacenza e l’impoverimento collettivo. Evviva gli elettori svizzeri, che hanno affondato questo bastimento di spesa sprecata. Se si tratta di un sostegno a chi perde il lavoro, allora è bene ricordare che esiste(va) di già, si chiama(va) cassa integrazione, e s’è tradotta in un premio all’improduttività, dei lavoratori come delle imprese. Se si tratta di finanziare gli ammortizzatori sociali, oggi quasi scarichi, o di modificarli, allora se ne parli, ma con qualche maggiore precisione.
3. Propongono di fare un audit, vale a dire un accertamento, sul debito pubblico, non escludendo di non volerlo rimborsare e andare in default. L’audit può essere utile, anche se già esistono approfondimenti qualificati ed eseguiti da terzi. Ma, insomma, conoscere meglio non fa mai male. L’accertamento, però, ha un senso se serve a sapere come meglio ridurlo. Sicché suggerisco che lo si faccia sulla spesa pubblica (anche in questo caso ve ne sono di già disponibili), il cui crescere improduttivo fa galleggiare in alto il debito. E’ quella che va tagliata. In quanto al default, lo si accarezza come fosse un dispetto ai creditori, immaginati come ricconi speculatori e mangiatori di pargoli. Sarebbe una tragedia inedita, nella nostra storia nazionale, che porterebbe con sé fallimenti a catena: prima le banche, poi assicurazioni ed enti previdenziali, quindi le aziende, a seguire tutti noi. Ci si potrà riprendere, dopo una trentina d’anni passati nella palta. Evitarlo sarebbe saggio.
4. Desiderano cancellare Equitalia e passare la riscossione “in house”, vale a dire ciascuno per sé. Anche Matteo Renzi ha sostenuto (giocando con le parole) che Equitalia sparirà. Ma il punto non è il riscossore, al quale si chiede solo d’essere onesto (ne avemmo di fuggiti con la cassa) ed efficiente, i punti sono due: a. le modalità di riscossione, che se troppo dure divengono afflittive, ma se troppo molli un piacere agli evasori; b. chi accerta il dovuto e come si ricorre avverso tale potere, il che comporta far funzionare la giustizia e non lasciare l’osso alle commissioni tributarie, che dipendono dalla medesima mano cui fanno capo gli accertatori e i riscossori.
5. Sono europeisti (forse attratti dalle stelle), ma sostengono che questa Europa va cambiata. E’ tesi diffusa ovunque, non credo se ne trovi uno (certo non io, europeista) che sostenga il contrario. Ma si deve stare attenti a non coltivare la doppiezza di chi è per il matrimonio e la sua indissolubilità, salvo avere in uggia il proprio coniuge. L’Ue è così per ragioni storiche, volerla migliorare è meritorio, ma per farlo si deve partire dal presupposto che rinunciarvi sarebbe uno spaventoso regresso. Su questo gli ortotteri sono (almeno per ora) chiari, e che il cielo stellato li benedica. Sono, però, favorevoli a un referendum d’indirizzo, per stabilire se restare con in tasca l’euro o rivolerci le lire. Non vogliono l’uscita dall’euro, ma per chiederlo agli italiani. Un po’ ipocrita: divenuti grandicelli hanno il dovere di dire cosa ne pensano. La sola ipotesi, comunque, spiega perché non escludono il default del debito pubblico: in caso di ritorno al conio nazionale sarebbe una certezza, dato che la scialuppa italica sarebbe sbattuta da marosi che (ri)farebbero schizzare in alto sia l’inflazione che i tassi d’interesse. Il che comporta impoverimento dei risparmiatori e alto costo del debito. Da una parte lo svaluti, dall’altra, per poterlo comunque vendere, prometti di pagare sempre di più. Così andando ci si comprerà una caramella, con il reddito di cittadinanza. Occorrerà qualche altra riflessione, sul punto, anche perché non è affatto detto che il sistema non entri in crisi per i fatti suoi (c’eravamo andati a un passo, prima dei provvidenziali interventi della Bce).
6. Fedeli al frinire nelle sere d’estate, sono per il risparmio energetico, le fonti rinnovabili e la chiusura delle centrali a carbone e degli inceneritori (e lasciamo perdere che a Parma è in funzione, dopo la loro vittoria). Mi colpisce il fatto che il loro programma coincide con quello dell’Enel. Suggerisco loro di ragionare su qualche dato: la produzione da rinnovabili è, oggi, in Italia, il 40% dell’energia elettrica prodotta; sarà il 60% fra 10 anni; il 100% dal 2050. Così dice Enel. Posto che, attualmente, il 44% delle rinnovabili è il vecchio caro idroelettrico, e posto che pale e pannelli si diffondono dal 2007, come si spiega che noi, campioni europei, abbiamo visto decrescere queste fonti, fra il 2014 e il 2015? Se l’energia della natura arriva gratis, come si spiega che la nostra bolletta (la più cara d’Europa) è cresciuta in un anno del 3.8%, mentre nel resto d’Ue dell’1.3? Con il petrolio ai minimi. E che mentre cresce la produzione elettrica da rinnovabili cresce anche l’importazione di elettricità (prodotta con centrali nucleari in Francia)? Forse bisogna ragionare sulle percentuali d’energia utilizzata, non solo prodotta. In altre parole: non so se viene veramente prodotta tutta quella energia da rinnovabili (chi misura e come? Fin qui vedo solo dati sulla “potenza istallata”, che è cosa ben diversa), ma penso che se ne utilizzi pochina. In compenso si pagano sussidi, contabilizzati in bolletta agli italiani. E, a proposito di bolletta: si cambiano i contatori, a spese del cliente, per fornire dati a chi vende energia, mentre sarebbe stato sensato farlo per fornirli al consumatore, in modo puntuale e immediato. Cosa che i “nuovi” contatori non sono in grado di fare. Le rinnovabili sono una bella cosa, ma per funzionare veramente hanno bisogno di un modello di consumo assai diverso, dischiudendo le porte alla ricerca sulle batterie. Torneremo a parlarne, ma, ecco, giusto per avvertirli, fin qui “risparmio” e “verde” hanno portato solo costi e conti in rosso.
Accanto alla pentaeconomia, naturalmente, restano i marchi di fabbrica: no alla casta sì all’onestà. Il fatto è che problemi complessi non s’acconciano a soluzioni banali, e se è ben vero che fa piacere essere operati da chirurghi che non siano baroni e disonesti, è anche vero che si privilegiano quelli che non confondono le tonsille con i testicoli.