Economia

Più in fretta, non più piano

Più in fretta, non più piano

Del decreto governativo indirizzato alle liberalizzazioni, quel che sorprende di più è il gran clamore che ha suscitato. Già, perché il decreto va nella giusta direzione, merita apprezzamento, ma non è mica una rivoluzione, mica una vera liberalizzazione, solo qualche passo, qualche prima mossa.

Dai tassisti ai farmacisti, dalle banche alle assicurazioni, il decreto afferma il giusto, ma certo non rivoluziona il settore. Eppure sta succedendo il finimondo, a dimostrazione di quanto corporativizzata ed anchilosata sia la società italiana.

Intanto si deve stare con gli occhi bene aperti ed incalzare il governo. Sarebbe un guaio accrescere la distanza che già separa la parte d’italiani che si conquista la vita nel mercato, sottoposta alla concorrenza interna ed esterna, da quella che l’ha messa al riparo sotto il tetto delle protezioni, siano esse stataliste o sindacali. Se non si vuole che quel provvedimento sembri punitivo solo per alcuni, se si vuole che le liberalizzazioni siano veramente tali, quindi premianti per tutto il mercato, si deve andare avanti, si deve andare oltre e non si può in nessun modo evitare di affrontare il problema della disciplina del lavoro.

A questo si aggiunga che le liberalizzazioni non sono bacchette magiche, non consentono di ottenere, per il solo essere enunciate, grandi risultati. Occorre poi che vi siano autorità di controllo che evitino la creazione di cartelli, ed occorre che il governo adotti una politica fiscale che non distorca quella libera concorrenza in altra pagina adottata. Su tale terreno è ragionevole l’opposizione si dica insoddisfatta, e con questi problemi è giusto reclami dal governo politiche effettive e non propagandistiche.

Inorridisco, invece, quando leggo affermazioni prive di senso politico, rivelatrici di preoccupante confusione, del tipo “le categorie che a noi fanno capo ?”, oppure “si colpiscono i ceti che hanno votato per noi ?”. Primo: e chi sono? Il governo di centro destra non ha fatto che aumentare la spesa pubblica (altro che la “macelleria sociale” di cui era accusato), favorendo i pubblici dipendenti, che poi hanno votato come pareva a loro, e massicciamente a sinistra. Secondo: e che significa? La politica deve tenere conto degli interessi, dacché solo gli ipocriti ed i falsi dicono il contrario, ma deve anche sforzarsi di inserirli nel quadro di un’idea complessiva di società, di sviluppo, di distribuzione delle ricchezze. Se si difendono interessi di categoria senza avere in mente una politica che li renda coerenti con il fine che ci si è preposti, se, addirittura, si difendono interessi in contrasto (quelli dei farmacisti e quelli della grande distribuzione), allora non si è politici, ma sindacalisti. E la politica ridotta a sindacalismo si chiama corporativismo.

La nostra società è, purtroppo, massicciamente corporativizzata, e questa è una delle cause principali della perdita continua di competitività. Di questo sono responsabili in molti, e certo è responsabile una sinistra che largamente soggiace alle volontà sindacali. Ma se al primo decreto, al primo timido tentativo di restituzione di sovranità al mercato, anziché chiedere di più e più in fretta, l’opposizione chiede meno e con più “concertazione”, allora tutto portà dire e sostenere, meno che essere un’opposizione che mira a costruire una società liberale.

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