Si è storta la bocca per il passato politico di Antonio Patuelli, nuovo presidente dell’Associazione bancaria italiana. Quasi a supporre che già nella sua persona si trova quella commistione che va spezzata. Invece credo che il suo potenziale punto di forza stia proprio in quel che sembra essergli rimproverato: la formazione politica. Il sistema bancario italiano deve cambiare profondamente. Il fatto che ad accompagnare questo passaggio ci sia chi ha una visione più complessa, rispetto alla pur importante sostanza aziendale, è un vantaggio. Che si trasformi in un bene e non degradi in un male è cosa che vedremo.
Patuelli non è un carrierista dell’ultima ora, uno di quei turaccioli che galleggiano nell’oceano di trasformismo che ci sommerge. E’ stato segretario nazionale della Gioventù liberale e non ha mai cambiato idea (e neanche aspetto, essendo uno di quegli uomini che hanno il vantaggio d’essere invecchiati alla nascita, talché si conservano eguali da un secolo all’altro). Passione e formazione politica sono preziose. Non lo è divenire professionisti della politica, passando dai banchi di scuola alla pensione senza mai essere andati a lavorare.
C’è un primo problema, riguardante gli assetti proprietari. Le fondazioni bancarie nacquero con l’avvio del processo di privatizzazione, seguito alla messa sul mercato delle tre Bin, le tre banche l’interesse nazionale, che facevano capo all’Iri. In quel caso bastò venderne le azioni. Per altre si pensò alle fondazioni come soluzione ponte, in modo da mantenere il radicamento locale del patrimonio, procedendo speditamente verso la consegna al mercato. Quel meccanismo s’è inceppato e le fondazioni sono divenute permanenti. E’ attraverso le fondazioni, esemplare (in negativo) il caso del Monte dei Paschi di Siena, che la politica ha mantenuto le mani sul credito. Attenzione: non la “politica creditizia”, o una qualche idea del rapporto fra credito e sviluppo, ma le strutture partitiche. Con l’aggravante che, da allora a oggi, si sono soppressi i partiti e li si sono sostituiti con i potentati personali e i comitati elettorali. Uno dei compiti che aspetta il liberale Patuelli è proprio quello di disincagliare il treno e rimetterlo in cammino verso la destinazione: il mercato. Quindi l’indipendenza.
Nel frattempo, però, è cambiato lo scenario. L’avvento dell’euro, di un’area monetaria comune che mette assieme economie e paesi diversi, richiede la formazione di istituti bancari che coprano la medesima area. Nel 1990 le nostre banche erano troppe. Anche con l’assistenza della Banca d’Italia (governatore Antonio Fazio) s’è proceduto a positivi accorpamenti. Ma la loro dimensione resta troppo piccola. Il fatto è che, a dispetto di tanta retorica, all’interno dell’area monetaria comune ciascun paese tende a fare l’interesse proprio, anche usando le banche nazionali quali strumenti per favorire i propri sistemi produttivi. L’esercizio, pertanto, deve essere duplice: puntare a banche europee senza che questo comporti cessione di sovranità, o di ricchezza. Ed è un esercizio politico, non solo bancario. Un’Abi che non sia solo il salotto dei banchieri (oltre tutto piuttosto mal frequentato) non può che porsi il problema di come interpretare tale stagione.
La necessità di istituti europei, quindi grandi, non comporta la sparizione delle banche con radici e vocazioni locali. Ma richiede che il loro ruolo sia ragionato e chiarito. Il governo tedesco, ad esempio, difende sopravvivenza e autonomia delle Landesbank, anche sottraendole ai controlli europei. Mediante quelle banche i tedeschi fanno operazioni industriali, e ne sa qualche cosa il nostro settore tessile, che dalla non leale concorrenza è stato assai indebolito. Posto che Patuelli viene proprio da una banca locale (Cassa di risparmio di Ravenna), farà bene a battersi perché i controlli riguardino tutti e le condizioni operative non siano diverse.
Senza dimenticare che i costi operativi delle nostre banche sono troppo alti e che, quindi, i tagli alla spesa corrente e al personale dovranno accompagnarsi a dirigenze credibili. Trasparenza, quindi, e meritocrazia spietata.
Avere visione politica aiuta. Mancare questi appuntamenti, invece, uccide. E’ di questo che dovremmo parlare, lasciando al magistrato penale l’accertamento dei reati. Se ci sono. E sembra ci siano.
Pubblicato da Il Tempo