Economia

Pomigliano delenda est

Pomigliano delenda est

A Pomigliano d’Arco la sinistra ha perso e perde la voglia d’essere di sinistra, seria e di governo. Con il referendum di martedì prossimo, 22 giugno, quando i lavoratori di quella fabbrica saranno chiamati ad accettare o meno le condizioni poste dalla Fiat, s’innescherà un meccanismo pericoloso, difficilmente governabile, perché sarà mancato, a quanti si oppongono, uno straccio di linea politica, come sarà mancato, a quanti acconsentono, un abbozzo di strategia generale, non legata all’emergenza di far la concorrenza agli operai polacchi (perché di questo, si tratta).

Le forze politiche perdono progressivamente presa sulla realtà, ma colpisce più crudamente la malasorte di una sinistra che è tutta proiettata alla conquista dei salottini postribolari, eccitati dai post-it spocchiosetti e irragionevoli, divenuta non solo ininfluente, ma direttamente estranea alle fabbriche. Una sinistra il cui segretario, Pier Luigi Bersani, cerca, senza riuscirci, di barcamenarsi fra un fronte del rifiuto che comprende forze di destra reazionaria, come l’Italia dei Valori, e un fronte del consenso che punta solo a salvare gli investimenti, senza essere capace di articolare un ragionamento sull’industria e chi ci lavora. Una sinistra che finisce prigioniera del ribellismo e delle rivalità interne, sempre più piegata su se stessa. Una sinistra sindacale in cui la Cgil Campania invita i lavoratori a votare a favore del piano Fiat, ma deve vedersela con la Fiom (i metalmeccanici del medesimo sindacato), locale e nazionale, che spinge in senso opposto, con l’impressione che tutto abbia a che vedere più con gli equilibri interni, e con la prossima sostituzione di Guglielmo Epifani, che non con il futuro della fabbrica. Roba che porta male a tutti, non solo a chi è di sinistra.

La Fiat ha già annunciato la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese (Palermo), che oggi produce assai più di quello di Pomigliano. Mancano due anni alla chiusura dei battenti, ma se si vuole evitare che questo accada, se si vuole che altri prendano il posto della Fiat, il tempo che manca è assai minore, perché far funzionare una fabbrica non è sinonimo di riceverne le chiavi. Eppure tutto procede con flemmatica lentezza, discettando d’immaginifiche gare internazionali il cui esito sarà la chiusura vera e propria. Chi se ne occupa? Pochi, che prendono poco spazio sui giornali. Viviamo solo d’emergenze, non fa notizia il saperle evitare. Adesso balla Pomigliano (Napoli). A parte Torino, sede storica, gli altri stabilimenti italiani si trovano a Melfi (Potenza), Cassino (Frosinone) e Val di Sangro (Chieti). Perché in quei luoghi e non altrove?

Le scelte fatte non hanno nulla a che vedere con fiscalità di vantaggio (che non esiste) o con logistica evoluta (che non c’è), ma con la forza dei potentati politici d’un tempo, tutti democristiani. Quegli stabilimenti portano il nome di Andreotti, Gioia e così via padrineggiando. La loro disseminazione è priva di disegno produttivo, ma risponde ad una logica di redistribuzione. Siccome tale impostazione non risponde agli interessi aziendali, la Fiat ha ricevuto in cambio (e con ampio guadagno) molta spesa pubblica, sotto varie forme. Finché il mondo era chiuso potevamo permettercelo, perché agli operai di Pomigliano avrebbero dovuto far concorrenza quelli di altre zone d’Italia, senza lavoro o maggior voglia di lavorare, ma il sindacato e la sinistra provvedevano a schierare tutti dalla stessa parte, bendando gli occhi con l’ideologia, e la democrazia cristiana provvedeva a pagare tutti con la spesa pubblica. Quel mondo è finito, ora la concorrenza la fanno i polacchi, volendola vincere. E hanno ragione.

Pestare i piedi per avere indietro il mondo andato non ha senso, è infantile, come rivolere il giocattolo rotto. Ma neanche ha senso chiedere agli operai di Pomigliano d’essere loro a decidere. E’ assurdo: nel momento in cui il mercato diventa globale si pensa di navigarlo con referendum aziendali? Semmai si deve prendere atto che l’intero capitolo delle rappresentanze sindacali e degli ammortizzatori sociali deve essere riscritto, il che non dovrebbe essere lasciato alle inziative (che un tempo si sarebbero definite) “padronali”, ma dovrebbe essere compito primario della sinistra. Insomma, se a Pomigliano si lavora quattro ore al mese, si campa di cassa integrazione e si integra con lavori in nero, se si praticava l’assenteismo, se si facevano scioperi nei fine settimana, il conto non lo pagava la Fiat, ma i cittadini più deboli e i contribuenti tutti. O riformiamo la baracca o ci crolla addosso.

Mettiamo che al referendum vincano i No. Partita conclusa e settecento milioni che vanno in Polonia. Assai più probabile che vincano i Sì. E poi? Giorgio Cremaschi segretario nazionale Cgil, ha già detto che loro non ci staranno, comunque. Altri dicono che il referendum viola la Costituzione (questa storia ha veramente rotto l’anima). E allora? Il giorno dopo parte l’opposizione all’accordo. E che significa? Non lo sa nessuno, ma temo d’immaginarlo: scioperi, proteste, picchetti, poi i più duri vorranno il blocco, appresso gli estremisti faranno sabotaggi, successivamente …. E un giorno la sinistra dirà: da questa gente prendiamo le distanze. No, è oggi il tempo giusto. Subito. Per farlo non si deve obbligatoriamente dire che la Fiat ha ragione, ma si ha il dovere di riconoscere che non possono vivere nel mercato presente i miti che erano fuori mercato anche nel passato.

Una sinistra seria, dotata di cultura di governo, non accetterebbe il “ricatto” di Pomigliano, ma rilancerebbe volendo ridiscutere l’insieme della politica industriale e delle relazioni politiche e sindacali, cercando di dimostrare d’essere assai più avanti di una destra che parla di liberalizzazioni e semplificazioni, ma poi assiste allo scontro come fosse spettatrice e non parte in causa, tifa per il Si, ma non sa spiegarne la valenza generale. Tutto questo non c’è, quindi gli operai di Pomigliano saranno da soli, sovrastati dalla solita e scontata rottura sindacale (Cisl, Uil e Ugl firmano, Cgil no), accompagnati dal solito vociare inconcludente della politica, alloggiati in un territorio in cui l’economia irregolare è assai più forte di quella onesta. Decideranno di acconsentire, ma, poi, altro non sapranno e non potranno fare.

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