Abbiamo assistito a molte privatizzazioni fatte male, tradottesi in un falò di ricchezza pubblica. La più tragica di tutte, quella di Telecom Italia, è uno scandalo a cielo aperto, che ha arricchito pochi, impoverito tutti e distrutto una grande multinazionale italiana. L’errore comune, in quel tipo di privatizzazioni, è consistito nel mettere in mani private (pessime) il controllo di società che avevano posizioni di monopolio. Siamo stati in grado, insomma, d’inventare le privatizzazioni senza mercato. E non c’è da esserne orgogliosi.
Non contenti, abbiamo creato una lunga serie di animali misti, involuzioni genetiche delle vecchie municipalizzate. Abbiamo quotato in Borsa società incaricate di distribuire acqua o energia elettrica, non facendo venire meno il controllo dell’amministrazione locale e non creando una vera competizione di mercato. L’animale misto, come spesso capita, ha, nel suo corredo genetico, i tratti dominanti dei due difetti.
Dopo tali esperienze, me ne rendo conto, non è facile parlare di “privatizzazioni” senza destare sospetti. Per parte mia, però, quegli errori li avevo visti e descritti per tempo. Oltre che inutilmente.
A dispetto di tali premesse, però, credo che ancora sia da compiersi la più grande e promettente delle privatizzazioni, relativa alla burocrazia pubblica. Uscire dall’incubo burocratico, che genera alti costi e bassi rendimenti, è possibile, e si può farlo in fretta, a patto d’essere disponibili ad una vera rivoluzione culturale: si deve privatizzarne la gestione.
Ci sono funzioni che lo Stato non può e non deve delegare, che non può in nessun caso privatizzare, come, ad esempio, l’amministrare la giustizia. Solo lo Stato può garantire (quando ci riesce) l’esistenza di un giudice terzo ed imparziale, che decide secondo la convinzione che s’è fatto. Ma non c’è alcun motivo, culturale o istituzionale, per cui lo Stato non possa delegare la gestione dell’organizzazione pratica, che attorno a quel giudice si muove. Solo lo Stato può trovare, attraverso la fiscalità generale e la spesa pubblica, le risorse per rendere possibile l’esercizio di numerosi presidi medici, senza farli dipendere dalla capacità contributiva di chi chiede un pronto soccorso. Ma non c’è alcun motivo che suggerisca di mantenere in mano pubblica la gestione materiale di quei centri, compresi gli acquisti di farmaci e la gestione del personale. Del resto, cosa c’è di più specifico della funzione relativa alla difesa, quindi al mantenimento operativo delle Forze Armate? Eppure, già oggi, l’aeronautica militare affida a privati estranei la gestione d’alcuni suoi aerei da guerra.
Si tratta, allora, settore per settore, di dividere il cuore della funzione, l’ambito entro il quale non può e non deve entrare il mercato, lasciando, invece, che in tutto il resto non sia l’allontanamento del mercato a favorire lo spreco. Una volta operata questa separazione concettuale, si dovrà affidare a gestori privati tutta la parte amministrativa e logistica. In questo modo, e in poco tempo, si otterrà una riduzione della spesa, un aumento della qualità del servizio e, cosa ancora più importante, il ritorno dello Stato alla sua reale funzione di garante, abbandonando quella di gestore, nella quale non ha dato buona prova di sé.
Faccio un esempio pratico, scegliendo la giustizia, ma avvertendo che vale per ogni altro settore. Le spese di mantenimento del personale, delle sedi, dei sistemi informatici, sono, ogni anno, altissime. Essendo male organizzate, capita che far crescere la spesa non solo non migliora il servizio, ma rischia di aumentare il caos. Si tratta di una posta molto alta, che grandi organizzazioni private, anche multinazionali, sarebbero ben felici di aggiudicarsi. A queste si possono porre tre condizioni: a. il primo anno prendete l’intera posta, il successivo la spesa deve scendere di qualche punto percentuale, per arrivare a contrarsi del 10% in cinque anni; b. il personale in servizio deve essere tutto mantenuto, salvo poterlo gestire secondo criteri di mercato; c. l’affidamento del lavoro avviene dopo la firma di un regolamento di servizio, che stabilisce con precisione gli standard qualitativi, mancando i quali il gestore ne risponde economicamente.
Per favore, magari anche per un solo minuto, provate a non dire che è impossibile, che una cosa simile non passerà mai, che tutte le corporazioni esistenti si ribelleranno, provate ad immaginare i vantaggi: 1. diminuzione progressiva della spesa corrente, il che significa liberazione di risorse per altri investimenti, o per la riduzione del debito e, quindi, degli oneri connessi; 2. lo Stato acquisisce il ruolo di definitore delle regole ed esecutore dei controlli, fungendo da garante del cittadino e del mercato; 3. la qualità del servizio è predefinita e gli errori del gestore divengono penalità economiche, un servizio che non funziona come dovrebbe, quindi, rimarrebbe un danno, ma sarebbe previsto un risarcimento. Nulla di tutto questo è anche solo lontanamente pensabile nel sistema attuale.
Gli effetti indotti da una simile rivoluzione non sono meno interessanti. Assisteremmo ad una reale ristrutturazione dell’intero apparato pubblico, assecondando criteri funzionali miranti a massimizzarne l’efficienza. Potremmo cominciare a misurare non solo la presenza sul posto di lavoro (oggi misuriamo l’assenteismo, e già questo la dice lunga), ma anche la produttività, sulla base di obiettivi e parametri predefiniti. Vedremmo esaltarsi il ruolo statale di garanzia, soppiantando quel simulacro inefficace rappresentato dalle così dette autorità indipendenti. I cittadini si rivolgerebbero alla politica per chiedere scelte d’indirizzo, anziché per degradarsi a clientela e chiedere un ingresso nella pubblica spartizione.
Troppo bello per essere vero? La vedo diversamente: troppo bello per rinunciarci