Si riparla di privatizzazioni, ma con troppe confusioni. Non sempre vendere quel che è in mano pubblica significa privatizzare. Occorre che ci sia un disegno complessivo e sia reso pubblico, altrimenti è soltanto voglia di far cassa. Sia per privatizzare che per razionalizzare e ripulire la spesa pubblica – la declamata e negletta spending review – occorre pianificazione pluriennale.
Di patrimonio pubblico da vendere, usando i proventi per far scendere il debito e non per alimentare la spesa corrente, ce n’è molto. E venderlo sarebbe un affare non soltanto per gli incassi, ma per la vita collettiva. Prima di sentir dire le solite sciocchezze, circa i cattivoni del capitale globale che vogliono portarci via i tesori, mettiamo le mani avanti: il Colosseo non si vende. Ma c’è tanto patrimonio immobiliare a vario titolo pubblico che deperisce sotto i nostri occhi, trasformando in ruderi e riparo per attività illecite quelli che erano edifici di pregio. La gran parte nei centri storici. Valorizzarli e restituirli al mercato sarebbe un bene per le casse, ma anche per i tessuti urbani.
Perché l’operazione abbia un senso occorre: 1. concentrare in una sola le molte mani pubbliche; 2. predisporre le modalità per modificare le destinazioni d’uso e stabilire i vincoli storici o architettonici, senza che per venirne a capo sia necessario un secolo; 3. mettere a gara la gestione delle vendite, riscuotendo subito una parte e a conguaglio la differenza (che sarà comune interesse sia la più alta possibile, visto che il venditore sarà pagato in percentuale). Tutta roba che richiede interventi legislativi e amministrativi, quindi cose realizzabili in tempi brevi. A volerlo.
Poi c’è il vasto capitolo delle municipalizzate. Le più importanti sono quotate in Borsa, sicché non si può certo privatizzare quel che è per sua natura privatistico, ma ci sono le partecipazioni pubbliche da valorizzare. Oggi il Comune azionista è in conflitto d’interessi: da una parte rappresenta l’interesse ad avere il miglior servizio al minor prezzo, dall’altra prende soldi dal profitto generato vendendo servizi non necessariamente migliori e al migliore prezzo (nel campo della pulizia la Capitale è l’esempio del peggiore servizio al più alto prezzo). Vendere, quindi, ha senso per cessare quel conflitto e rompere il legame delle prestazioni a prescindere dalle gare: i migliori gestori è bene che si espandano.
Fra le aziende di Stato ve ne sono di cui liberarsi e di cui giovarsi. La Rai è nella prima categoria: soldi dilapidati per difendere un monopolio da tempo sepolto, con l’aggravante del contagio universale spartitocratico. Fra poco non varrà più niente, oggi ancora qualche cosa. Ci sono le Poste: in attesa di sapere perché se la proprietà è pubblica non si tassa il profitto dal rialzo dei tassi d’interesse, si tratta di integrarle nella logistica e non puntare soltanto alla rendita della cassa Bancoposta. Cioè serve un disegno industriale che sia nell’interesse del Paese. Mentre Ferrovie sono un buon binario di crescita anche fuori dai confini, ma si deve prima fare in modo che l’alta velocità sconfini al Sud, dov’è ancora sconosciuta.
Monte dei Paschi di Siena è una banca che va venduta per forza (sarebbe già dovuto succedere), mentre resta avvolta nel magico alone ‘strategico’ la ragione per cui ci si ricompera la rete di Tim. Se sono tali, le privatizzazioni si accompagnano a riforme del mercato, maggiore concorrenza e liberalizzazioni. Altrimenti finisce come con i balneari: rendite in mano a privati, con danno per l’erario e i bagnanti. Quella di Telecom Italia, ad esempio, fece molta cassa e s’inserì nella nuova legislazione europea, facendo crescere i servizi e scendere i prezzi. Il guaio è che un governo successivo consentì di violare le regole allora fissate, avviando il disastro.
Per fare le cose serie ci vuole tempo ma anche un mondo politico serio che non smonti domani quel che si fa oggi. Altrimenti “privato” può finire con il significare “(mal)tolto”.
Davide Giacalone, La Ragione 31 agosto 2023
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