Economia

Professioni e corporazioni

Professioni e corporazioni

Nella stagione delle riforme promesse si deve temere che prendano piede le controriforme. Mi riferisco al riordino delle libere professioni, ove quel che vedo agitarsi va in direzione esattamente opposta all’interesse collettivo. Non è facile, e neanche avvincente, orientarsi nella selva di sigle mai sentite nominare prima, ove si scopre che i liberi professionisti italiani hanno un’insospettabile vocazione gruppettara, forse nostalgici delle barbe lunghe e degli eskimi giovanili. Più semplicemente, forse, la grande maggioranza di quei professionisti si dedicano al lavoro, mentre alcuni di loro trovano più conveniente darsi all’organizzazione sindacale.
Per capire dove si va a parare, però, è sufficiente leggere quel che dice Maurizio de Tilla, presidente dell’“Organismo unitario dell’avvocatura” (peccato non lo abbiano denominato anche “di base” e “di lotta”), secondo cui l’arbitrato nelle cause del lavoro è da condannarsi, perché diminuisce le tutele per i lavoratori e non prevede obbligatoriamente di pagare una parcella all’avvocato. Ecco, se è questo l’andazzo, meglio fermare tutto, perché di corporativismi reazionari l’Italia ne ha già in abbondanza.
Oggi il ministro della giustizia riunisce i rappresentanti delle professioni, nel tentativo di avviare una riforma. Ascoltare gli interessati è cosa buona e giusta, il fatto è che ancora non sanno quanto debba essere lungo il tavolo e chi siano, esattamente, gli interessati. Quando saranno venuti a capo degli inviti, però, si troveranno a discutere di materie estremamente disomogenee, che vanno dalla sanità, al fisco, alla giustizia. E’ vero che esistono problemi comuni, per i professionisti (come, ad esempio, l’Irap, che secondo la legge e la cassazione non dovrebbero pagare, ma che l’agenzia delle entrate contesta a chi abbia un computer di troppo o un fatturato considerevole), ma è difficile credere che la soluzione prescinda da una diversa articolazione di ciascun settore. Faccio un esempio: una cosa sono i fiscalisti, ovvero professionisti (si suppone) altamente qualificati, cui ci si rivolge per problemi complessi, altra i lavoratori autonomi che ti aiutano a compilare la dichiarazione dei redditi. Questi secondi sono tantissimi, ma solo perché un comune mortale non riesce ad essere in regola con il fisco se non facendosi assistere da chi parla l’ostrogoto di quelle carte. Ora, secondo il presidente dei commercialisti, si può essere tali solo se laureati e abilitati, mentre il mestiere dell’assistenza fiscale è egregiamente svolto anche dai ragionieri. Come si fa a discuterne, senza prendere in considerazione la semplificazione fiscale, quindi i diversi profili professionali cui ci si riferisce?
Sempre parlando in generale: qual è l’interesse collettivo? Che i professionisti siano di buon livello e che il cittadino non finisca nelle mani di totali incapaci. Gli ordini professionali sono utili, in tal senso? La risposta è: no. Sarebbe utile la trasparenza, ma è l’ultima cosa che passa loro per la testa. Per capirsi: un avvocato su quattro non raggiunge il minimo di 820 euro mensili. Un avvocato su quattro, per dirlo in modo diverso, non fa l’avvocato. Io credo siano più numerosi, ma accontentiamoci del 25%. Ebbene, scorrendo gli iscritti all’ordine io cittadino non saprò mai chi sono. Meno ancora saprò quanti vincono le cause e quanti sono riusciti a far scadere i termini per i ricorsi o per altri atti, danneggiando il proprio cliente. Non so nulla, volo cieco. L’ordine, pertanto, svolge un ruolo protettivo per gli iscritti, ma non utile alla collettività.
Gli avvocati si battono per il ritorno dei minimi tariffari, giustamente abrogati da un provvedimento di Pier Luigi Bersani (che considerai subito positivo, salvo criticarne la parzialità, perché non si apre il mercato da una parte sola, lasciando non funzionante il servizio). Hanno inventato la frottola che serve a tutelare i giovani, mentre è vero l’esatto contrario, perché impedisce la concorrenza dei più bravi verso i più ammanicati e introdotti. I semplici cittadini non c’entrano nulla, perché questa storia dei minimi si riferisce a quegli avvocati (e notai) che hanno come clienti banche, assicurazioni e roba simile. Se li disputano al coltello, quei clienti, e poi vogliono il minimo per ciascuna causa, sostenendo che così fanno un piacere ai giovani che in quel mercato non entrano. Suvvia, un po’ di pudore! E vale lo stesso per il patto di quota lite, l’accordo in base al quale l’avvocato è pagato in percentuale, una volta vinta la causa. Sono contrarissimi, gli avvocati sindacalmente organizzati, ma così non solo fregano la concorrenza di chi è disposto a rischiare, pur di affermarsi, ma negano la base stessa su cui si reggono strumenti (da noi) nuovi, come la class action.
Per darsi un ruolo sostengono che è l’ordine a garantire l’aggiornamento professionale, senza il quale l’ignoranza cresce nel tempo. Appunto, è proprio questo che non va: deve essere il mercato ad espellere ignoranti e incapaci, non l’ordine, che, tanto, non espelle nessuno, ma, in compenso, organizza corsi d’aggiornamento professionale che sono luoghi di socialità, dove i professionisti di livello non mettono piede neanche se li minacci. Come fa, però, il mercato a funzionare se ci s’impegna a legarlo e ingessarlo?
La concorrenza non è una fissazione per liberisti scolastici, ma uno strumento per far vincere la meritocrazia. I liberi professionisti dovrebbero essere gli alfieri del merito, i paladini della selezione, gli scudieri dell’apertura. Quando diventano i vessilliferi della corporazione mettono tristezza, o insana allegria.

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