A proposito del settore delle telecomunicazioni, della sorte che spetterà alla Stet ed alla costituenda Telecom Italia, lo scontro fra sostenitori della public company e sostenitori del nocciolo duro ha talmente animato il dibattito, trovato talmente tanto spazio sulla stampa, che sembrerà eccentrico, forse provocatorio, sostenere che non è questo il punto, che si tratta di un dibattito largamente ozioso. Sarà ineducato, ma questa è la mia opinione.
Il grande problema delle telecomunicazioni italiane è di continuare a trovarsi in un regime di sostanziale monopolio, l’amministrazione del quale è stata delegata al gruppo Stet, vale a dire ad una società a partecipazione statale. Essendo il capitale Stet dominato dalla presenza dell’Iri, che equivale alla presenza dello Stato, ne deriva che tale monopolio era e resta in mano pubblica. Da ciò consegue il fatto che il management di questo gruppo viene nominato da chi amministra lo Stato. E da chi altri altri dovrebbe essere nominato, datosi che qui risiede l’amministrazione della maggioranza delle azioni?
Non credo che un grande passo in avanti potrebbe consistere nel fatto che, privatizzandosi realmente (perché nella finzione lo è già) il capitale Stet, il monopolio delle telecomunicazioni passi da mani pubbliche a mani private. E non credo che, in questa prospettiva, i teorici della libertà di mercato possano perdere anche un solo minuto di tempo a discutere se tale monopolio sarà meglio amministrato da una public company o da una società per azioni in cui si riconosca un nocciolo duro di proprietari. Essi, forse, dovrebbero porsi il problema, semplice e diretto, dell’esistenza del monopolio.
Ed infatti questo è il problema. L’Italia ha fatto e sta facendo di tutto per conservare i propri monopoli pubblici, adeguandosi in ritardo, o solo formalmente, alle direttive comunitarie in materia. Questo genere di politica, come ho cercato più volte di dimostrare, non ha nulla in comune con il semplice protezionismo (ampiamente praticato da altri paesi comunitari), è solo un frutto di inerzia e di scarso coraggio, comunque è destinata ad impoverirci tutti.
Il mercato delle telecomunicazioni richiede che ci sia concorrenza, e quanto prima sarà aperta e reale, tanto più sarà significativa la presenza dell’imprenditoria italiana. Più lunga sarà la resistenza dei monopoli, più il mercato verrà imposto dalla concorrenza e da soggetti internazionali.
Senza un mercato aperto alla concorrenza non ci sarà mai trasparenza tariffaria, e, quindi, le aziende italiane continueranno a pagare i servizi di telecomunicazione assai di più dei propri concorrenti nella Comunità Europea, per non parlare di altre parti del mondo. Senza mercato le tariffe saranno sempre un discorso a due, fra Stato e concessionario, mentre gli altri non saranno mai soggetti, ma solo spettatori.
Senza mercato la qualità del servizio sarà solo un impegno preso autonomamente dal gestore, mai un parametro per premiare o condannare, per dare spazio ai più bravi ed efficienti. Senza mercato la differenziazione e la moltiplicazione dei servizi risponderà sempre e soltanto alle esigenze del gestore, mai a quelle dei suoi clienti.
Senza concorrenza non ci sarà mai neanche vero ed immediato bisogno di un regolatore indipendente e, quindi, si rimarrà nella situazione di sempre, con uno Stato ch’è al tempo stesso regolatore e gestore. Da questo punto di vista la chiusura dell’Asst ha solo eliminato il bubbone più grosso, non certo risolto il problema.
Oggi il mercato delle telecomunicazioni è sempre di più un mercato globale. Dovremmo abituarci a considerare domestico il mercato comunitario, ed invece ci chiudiamo nei confini nazionali nella speranza di potere ancora a lungo parlare dell’assetto azionario della Stet.
A fronte di tutto questo ci entusiasmiamo nel discutere se mia nonna potrà o meno essere azionista di una public company o se si troverà ad essere socia di qualche grande gruppo, costituente il nocciolo duro . Tutto questo mi atterrisce, anche perché mia nonna non mi lascerebbe più in pace.