La perversione fiscale confonde le idee. C’è chi crede sia una trasformazione del costume quel che è il mero risultato dell’assenza di credito e di una fiscalità satanica, come nel caso della scelta fra casa di proprietà o in affitto. E c’è chi s’industria a cercare da quale altra fonte fiscale recuperare i quattrini necessari a tassare meno la casa, laddove, invece, l’obiettivo dovrebbe essere quello di far scendere un pressione da satanisti. Sono questioni fondamentali, perché da lì passa la possibilità di una risalita produttiva, che non sia solo, come fin qui si prospetta, un rallentamento della caduta.
Le giovani coppie, come le famiglie o i singoli che si trasferiscono non scelgono di andare a vivere in affitto perché è passata di moda la proprietà, semplicemente non trovano banche disposte a finanziare mutui che non siano garantiti da beni di più alto valore, considerato che al costo d’acquisto va sommata sia la fiscalità specifica che quella patrimoniale (Imu, perché in assenza di relazione con servizi municipali, l’Imu è solo una patrimoniale). Soldi che l’acquirente spende e il venditore non incassa, perché vanno allo Stato. Neanche è vero, però, che si sviluppa il mercato degli affitti, perché i proprietari di case sono messi con le spalle al muro sia dal crescere dei prelievi patrimoniali che dall’inesistenza della giustizia, che per loro si trasforma, non di rado, in una perdita del diritto di proprietà. A questo s’aggiunga che il governo proroga gli sfratti, semplicemente rimandando la soluzione dell’emergenza abitativa, ma aggravando quella proprietaria.
Così procedendo si otterrà il pazzesco risultato che, in un Paese che non ha avuto vere e proprie bolle immobiliari, si svaluterà il patrimonio delle famiglie, oggi valutabile in poco meno di 6000 miliardi. La svalutazione coinciderà con il bisogno, indotto dal fisco e non dal mercato, di disfarsi di parte del patrimonio.
Di pari passo, del resto, chi propone di diminuire la pressione sul patrimonio s’industria a cercare gettito da altre fonti, magari accedendo all’insano vizio moralistico di far finta che si tassino i viziosi: con l’alcol, il fumo o il gioco. Strada sbagliata, perché i cittadini cui si sottraggono soldi sono i medesimi. Come è moralismo fiscale il far credere che i proprietari di case siano, per ciò solo, dei “ricchi”, giacché, in molti casi, si tratta di figli unici che ereditano case modeste, a loro volta, però, sprovvisti di redditi stabili e consistenti. Tassare questa gente è solo un modo per rovinarla e rovinarci.
Si può operare in modo da spostare parte del peso fiscale dal reddito al patrimonio, ma solo a condizione che la pressione fiscale complessiva diminuisca, restituendo risorse alla libertà dei cittadini, ai loro consumi e, quindi, al mercato. Il dogma del “gettito invariato” è una superstizione recessiva, che si deve abbattere prima di tutto dal punto di vista culturale. Non si può, ci sentiamo rispondere, perché abbiamo un debito pubblico troppo alto. Si deve, invece, perché così procedendo il debito cresce per i fatti suoi e i cittadini diventano più poveri. Un capolavoro fallimentare cui non s’è sottratto il governo dei supposti tecnici.
Serve una politica di liberazione fiscale, che per non essere mera propaganda ha bisogno d’essere accompagnata da: a. una riduzione significativa della spesa pubblica corrente, che non significa taglio dei servizi, ma riduzione degli sprechi (enormi), e che ha effetti recessivi di gran lunga inferiori al satanismo fiscale; b. una riduzione del debito mediante dismissione di patrimonio pubblico (in due o tre anni, già solo con quel che è immediatamente liquidabile, si possono raccogliere i 450 miliardi necessari a farlo scendere sotto la totalità del prodotto interno lordo); c. una riduzione della pressione burocratica, che è alleata sia della libertà individuale e produttiva che della riduzione della spesa pubblica (immediatamente agguantabile con quella digitalizzazione che, invece, con vergognosa cecità continua a essere rinviata nella scuola); d. l’apertura dei mercati chiusi, compreso quello dell’occupazione.
Attorno a questi quattro pilastri si costruisce un programma politico che punta alla crescita, capace di collocare l’Italia fra i paesi più solidi e dinamici d’Europa. Fuori da questi pilastri c’è solo l’oscurantismo recessivo di chi resta culturalmente e politicamente succube del Pusp, il partito unico della spesa pubblica. Un partito che è stato capace di far sembrare uguali, nel peggio, la desta, la sinistra, il sopra e il sotto.
Pubblicato da Libero