Economia

Quel che è accaduto

Quel che è accaduto

Colaninno ha vinto, Telecom Italia è degli scalatori, i debiti anche. Ma trattasi di affari non solo suoi (o loro), al contrario, si tratta di una vicenda destinata, nel bene e nel male, a far scuola.

Che r..opa è questa? ci chiedemmo all’inizio. A febbraio sembrava uno scherzo, ha scritto il Financial Times. Ma ridendo e scherzando le cose si son fatte serie, e quella di Telecom Italia è divenuta una vicenda istruttiva. In vista degli esami sarà bene ripassarla.

Quando inizia questa storia? chiede la maestra. Si alza il secchione: il 19 febbraio 1999, risponde sicuro e tronfio. Risposta sbagliata, zero. Il secondo risponde con fare ammiccante: è iniziata prima, almeno quando l’ingegner De Benedetti ne parlò al governo in giorni in cui ancora si negava recisamente che si sarebbe mai lanciata l’Opa. Risposta sbagliata, ma non ti metto zero perché la malizia va sempre incoraggiata. Questa storia comincia il giorno in cui si decise di privatizzare Telecom Italia, quel giorno il genio italico sfidò ancora una volta la logica: come si fa a privatizzare una società quotata in Borsa? si privatizza un’Azienda di Stato, un Ente Pubblico, una Municipalizzata, ma come si fa con una SpA quotata?

Ebbene, il fatto è questo: fino ad un dato momento veniva quotato in Borsa un monopolio garantito dalla legge, si quotava, insomma, la legge; però lo Stato manteneva il controllo della(e) società possedendone quote più che abbondanti. Un bel giorno, però, lo Stato decise di far cassa (e ne aveva bisogno) e di vendere le azioni. Spiegò che si trattava di una scelta strategica, una specie di rivoluzione, ma, come emerse dai contrasti fra l’allora ministro Ciampi e la Commissione europea, il problema era far cassa. Si volle battezzare “privatizzazione” questa operazione. Per realizzarla si dovevano superare due ostacoli: primo, non c’era un capitalista italiano in grado di acquistare quel che il governo vendeva; secondo, la maggioranza di governo non era affatto tale nel preparare e condividere l’operazione. Che fare?

Il secondo problema fu risolto con la golden share, assicurando, cioè, agli oppositori della privatizzazione e componenti della maggioranza che il governo avrebbe comunque mantenuto il controllo di Telecom, e che avrebbe utilizzato questo controllo per evitare che la società venisse governata come se fosse privata. Il primo, più complesso problema, fu risolto vendendo il grosso delle azioni ad investitori istituzionali stranieri, al contempo creando un gruppo italiano di controllo (il così detto “nocciolo duro”) nel quale spiccava il ruolo dell’Ifil, vale a dire della famiglia Agnelli. Applausi unanimi, euforia dal loggione. Quel giorno nacque la società scalabile.

No, un attimo, non si dimentichi un interessante particolare. La neonata società privatizzata, affidata alle attente cure dello sperimentato avvocato Guido Rossi, non sarebbe dovuta essere così facilmente scalabile perché il venditore delle azioni, vale a dire il Ministero del Tesoro, le aveva collocate sul mercato assegnando ad esse un valore ulteriore : il già raggiunto accordo con l’americana AT&T. Tant’è che nel consiglio d’amministrazione della privatizzata Telecom sedevano i suoi rappresentati. Conosco un paio di persone, gente alla buona, che fu preso da riso convulsivo quando si seppe che l’accordo non c’era e che, conseguentemente, Telecom aveva ospitato in Consiglio i rappresentanti della concorrenza. Ancora oggi, a pensarci, mi vien su una risata cretina che m’impone di trattenere il respiro. Quindi, punto e a capo.

Il 27 ottobre 1997 la Telecom privatizzata affronta il suo primo giorno di Borsa. Il 28 novembre Guido Rossi si dimette. Nel mentre ancora si parla della grande e strategica alleanza con AT&T (zitti, che ricomincio), la leadership passa a Gian Mario Rossignolo (12 gennaio 1998), indicato dalla Ifil, che, così, materializza il ruolo di nuovo azionista di riferimento (con lo 0,6% del capitale). Rossignolo entrò nel nuovo ufficio ed ordinò un caffè, i giornali scrissero: ha cominciato a commettere errori. Ancora oggi scrivono: commise un gran numero di errori. Uno lo commise di sicuro: credette di dirigere una società privatizzata. Rossignolo, comunque, non poté mai vestirsi da babbo Natale, ed entrato a gennaio esce a novembre. Inizia la stagione di Franco Bernabè.

Attenzione alle date. Se a Rossignolo avevano detto di essere il presidente con pieni poteri di una società privata, a Bernabè devono avere taciuto qualche cosa. A nominarlo, difatti, non è il nocciolo duro, ma il governo, epperò … epperò : “nel novembre del ?98 -scrive Carlo De Banedetti- mi telefonò il ministro Fassino”, che gli chiedeva notizie circa l’Opa Olivetti su Telecom. De Benedetti disse di non saperne niente, ma a dicembre gliene parla Colaninno : “mi disse che in questa direzione era particolarmente sollecitato dal governo”. Può darsi che De Bendetti sia troppo generoso nei confronti di Colaninno, suo vecchio collaboratore, e del governo, ove siedono molti che lui ha sostenuto ed incoraggiato, ma rimane un fatto che già il 19 febbraio, ad Opa appena lanciata, il capo del governo, Massimo D’Alema, si complimentava per il coraggio e la dinamicità, tesi, fra le altre cose, a colpire quanti non avevano voluto investire in Telecom (leggi Agnelli e “salotto buono”). Ma vi sono anche altri fatti.

Il 22 febbraio la Consob giudica non valida l’Opa. Il presidente dell’Olivetti, Tesone, dice : “noi andiamo avanti”. E qui, in quanto a coraggio, si comincia ad esagerare: se non è valida dove mai credono di andare? La Consob aveva notato che l’Opa era assai mal redatta e mancavano addirittura i necessari riferimenti tempistici, ed è ben strano che per un’operazione che aveva l’aria di valere più di centomila miliardi non si fosse trovato il modo di pagare un redattore meno superficiale e distratto. Il coraggio viene premiato: prima Silvio Berlusconi, capo dell’opposizione, sostiene che il no della Consob contiene rilievi che possono essere corretti e superati; poi, il 25 febbraio, il prof. Luigi Spaventa si reca a parlare con Massimo D’Alema, segue il via libera all’Opa. Ora, si intende, il capo della Consob e quello del governo hanno sicuramente parlato di altro, e trattasi solo di una sfortunata coincidenza: troppo alto il senso delle istituzioni dei due per potere immaginare che le cose stiano diversamente.

Altro fatto. L’Olivetti non può scalare la Telecom per motivi di antitrust, visto che è importante azionista di Infostrada ed Ominitel, cioè di due concorrenti. Inoltre, a star a quello che dice la licenza, non può vendere la quota in Omnitel prima della fine del 1999. Un bel guaio, ma si risolve. Olivetti, quindi, con il benestare del governo, cede le proprie quote alla tedesca Mannesmann. Tutto regolare, ma per un motivo davvero curioso: correva l’anno 1994, si avvicinavano le elezioni (le prime in cui Berlusconi presentava agli elettori Forza Italia), e si doveva assegnare la licenza per il secondo gestore di telefonia mobile; i concorrenti politicamente forti erano due, Omnitel della Olivetti-Mannesmann, ed una cordata in cui si trovavano Fiat e Fininvest, poi c’era il terzo incomodo, Pronto Italia, società nella quale alcuni italiani avevano investito al fianco dell’americana Pacific Telesis; poco prima di togliere le tende il governo, sostenuto dalla sinistra, aveva deciso di assegnare la licenza ad Omnitel, sicuro che i concorrenti Fiat-Fininvest avrebbero capito il perché, ma che fare con Pronto Italia? Si suggerì di fonderla con Omnitel, e nacque OPI. In virtù di questo si inserì un codicillo che consentiva al socio straniero di acquistare la maggioranza in corso d’opera : fu concepito per Pacifc, porterà fortuna a Colaninno ed a Mannesmann. La fortuna, sosteneva giustamente Machiavelli, è una virtù.

Adesso è tutto in regola, il convoglio dell’Opa è in cammino, anche se viaggia con i ritmi di una littorina. Già, perché uno si aspetta che cose simili vengano annunciate il venerdì sera, a Borsa chiusa, e concluse nel corso della settimana successiva. Invece si parte a febbraio e si fissa la conclusione a maggio. La gatta frettolosa avrà pure fatto i gattini ciechi, ma solo detti pargoli possono non vedere che due mesi di opa-opa si prestano a più di un equivoco. Così capita, difatti, che il valore del titolo, in Borsa, veleggia pericolosamente verso la soglia (già ritoccata) dell’Opa, ed un brutto giorno (30 marzo) capita anche che chi ha chiesto di comperare tutte le azioni sia beccato mentre le vende. Imbarazzante, e Colaninno chiede scusa. Un mio amico fece la stessa cosa quando la moglie lo trovò fra le calde braccia di un’argentina, ma, per sua sfortuna, la signora fu più severa della Consob.

Sull’altro fronte, intanto, Bernabè ce la mette tutta per pasticciare. Mi fondo con Tim, no, non mi fondo più. Resisto, no attacco, no sto a guardare, no voglio che il governo sia neutrale, no voglio che intervenga. Sembrava quello che ha incontrato Belfagor, il fantasma del Louvre (o, magari, qualche altro fantasma), e nella fretta e nella foga non riusciva più a mettere insieme né una resistenza né una fuga. Chiama a consulto Guido Rossi, il quale spara un paio di belle bordate contro il governo. Ma, ahiloro, non sono più i bei tempi in cui i governi potevano avere paura di simili affondi, cui seguiva la lunga coda dell’indignazione intellettuale e morale. Gli indignati adesso sono al governo. Una cosa spiritosa, però, Bernabè riesce ad inventarla: la fusione con Deutsche Telekom.

Il più avventato della compagnia sembra Ron Sommer, amministratore di DT, il quale annuncia di volersi fondere con Telecom nel mentre si trova ad essere azionista di un suo concorrente Wind. Così si becca una bella causa che gli costerà cara. Penali sue, certo. A noi interessa l’aspetto politico. Bernabè, infatti, ottiene la mobilitazione di Schroder, cancelliere tedesco e socialdemocratico con il quale D’Alema sta cercando di cementare un’alleanza che faccia somigliare l’Europa a qualche cosa di diverso da una pista di decollo per i bombardieri americani. Inoltre la fusione con DT sarà pur criticabile, ma risparmia a Telecom una prospettiva di indebitamento che non è certo una cura ricostituente. Scelga D’Alema, adesso. Beh, spiritosa è spiritosa.

Il governo italiano di sinistra appronta una difesa urgente per fronteggiare la spiritosaggine e, per non sfigurare in sense of humour, allestisce qualche lezione di liberismo thatcheriano all’indirizzo dei tedeschi: privatizzate subito e che il governo non si intrometta. Essendo l’umorismo dei tedeschi diffuso come i papaveri al polo nord, ottengono anche qualche risposta semiseria. Purtroppo per Bernabè l’imbarazzo politico che crea è (per lui negativamente) compensato dal giudizio severo che gli osservatori più informati danno dell’alleanza. A taluni era bastato leggere i giornali tedeschi, i quali gioivano per il fatto che fondendosi con Telecom DT avrebbe trovato un partner capace di insegnarle il mercato e la competizione. Andiamo bene, pensarono.

Se all’epoca della vendita da parte del Tesoro le azioni fossero state comperate da grandi investitori, o, addirittura, da industriali, al momento di decidere sull’Opa costoro avrebbero dovuto mettere a confronto i due piani industriali, quello della Telecom e quello degli scalatori. Viste le carte che giravano avrebbero fatto meglio a convocare dei medium piuttosto che degli analisti. Ma dato che le azioni erano prevalentemente in tasca ad investitori finanziari ci siamo risparmiati la seduta spiritica. Così i fondi hanno pensato: ho in tasca delle azioni Telecom che se la scalata fallirà scenderanno di valore, finendo con l’impoverire i ricchi pensionati che mi finanziano; se la scalata va in porto ed io tengo le azioni in tasca sarà poi difficile venderle a quello stesso valore; allora le consegno agli scalatori e, semmai, compero delle belle risparmio, perché quelli hanno tanti di quei debiti che, per pagarli, dovranno assegnare dei succosi dividendi.

Del piano industriale non si è più sentito parlare, e le poche cose dette sono destinate ad essere riviste. Un po’ di roba verrà venduta, attribuendo all’espansionismo boiardistico colpe che, in realtà, risultano meriti alla luce del debito. Quello che ieri era lo “straniero” da trattenere sulle sponde del Piave, diventerà il partner internazionale con cui allearsi. La golden share sarà bene distruggerla prima che scatti la maledizione di re Mida.

Così Colaninno ha vinto. Ha vinto anche il rinnovamento e lo svecchiamento della finanza italiana, per questo, sportivamente, in via Filodrammatici hanno brindato. “Ha vinto il mercato”, si è scritto. Ma, con tante mani che si agitavano, non è del tutto certo che quella invisibile fosse la sua.

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