Economia

Quotando e pasticciando

Quotando e pasticciando

Fincantieri e Poste Italiane sono due società per azioni in mano pubblica, avviate verso la quotazione in Borsa. La prima è imminente, la seconda in preparazione, ma non lontana. Sono due esempi di cosa si deve e non si deve fare. Nonché l’occasione per riflettere sulle vendite di ciò che è pubblico, affinché non siano svendite marginali e inutili.

Fincantieri è un esempio positivo. Non si può dire che versasse in buone condizioni e qui ce ne siamo criticamente occupati, in passato, per rilevare le contraddizioni insite nel dovere stare sul mercato e far quadrare i conti e dovere, al tempo stesso, rispondere delle proprie scelte al governo. Nel dovere avere siti produttivi nel numero e nella dislocazione necessaria e, al tempo stesso, non potere chiudere quelli improduttivi o mal allocati, per ragioni di equilibri sociali. Che non sono quelli societari. Mestiere complicato e che dovrebbe essere estinto. Mestiere, comunque, che Giuseppe Bono, amministratore delegato, ha saputo fare. Anche quando i conti erano ammaccati, comunque, Fincantieri ha sempre avuto in pancia tecnologia di prim’ordine e maestranze capaci di produzioni di altissima qualità. Ha mantenuto una diversificazione della produzione (dalle navi per crociere ai traghetti, dai gran yacht alle imbarcazioni militari) globalmente invidiata e ha saputo fare acquisizioni coraggiose, come la norvegese Vard, che l’hanno resa più forte nel segmento delle navi da lavoro e delle piattaforme.

I criticoni dicono che, in questo modo, Fincantieri rimane italiana, ma i cantieri sono sparsi nel mondo. E’ un vantaggio e un punto di forza, mica una falla o un difetto. Se avesse disponibilità di tecnici (lo tengano a mente, i giovani italiani) e convenienza potrebbe aprire altri cantieri, in giro, contraendo accordi e joint venture nei grandi paesi la cui tecnologia navale è assai più arretrata della nostra. In breve: portare in Borsa una cosa così serve, contemporaneamente, a renderla più patrimonializzata, più forte e a far affluire liquidi nelle casse dello Stato. Bene così.

Diverso il caso di Poste Italiane, perché dentro quella società, che fa molte cose (dalle assicurazioni alla telefonia), ci sono interi settori che vivono perché sussidiati dallo Stato. Inoltre svolge un ruolo di tesoreria in relazione diretta con la Cassa depositi e prestiti. Quando si porta in Borsa una cosa simile si quotano anche quei sussidi e quei legami? In questo caso lo Stato incassa sì della liquidità, ma si sottomette a obblighi che non saranno convenienti in futuro, ammesso lo siano nel presente. Siccome il valore della società dipende anche da quei sussidi, in pratica si sta quotando non una società dello Stato, ma direttamente lo statalismo. E non è una buona cosa.

Quindi, delle due l’una: o si distinguono le attività e si dividono i conti, sottraendo alla quotazione quel che è sussidiato, o si mettono le premesse di un pasticcio, che presto o tardi creerà onerosi problemi. La corsa alla quotazione, purtroppo, in questo caso non è servente la fortificazione dell’azienda, ma asseconda la sete di soldi dell’azionista. Cioè lo Stato.

E qui vale il ragionamento generale: abbiamo scritto fin troppe volte che si deve abbattere il debito pubblico mediante alienazione di patrimonio pubblico, sicché non sarò io a sostenere il contrario o mettermi di traverso, ma quell’operazione può funzionare se organizzata in modo coerente e completo, quindi non vendendo a spizzichi e bocconi, ma includendo in una sola operazione (magari anche con un veicolo societario apposito) l’intero patrimonio da consegnare al mercato. Non ci serve qualche miliardo qui e qualche altro là, ci serve dimostrare che siamo pronti a dare una botta notevole. Altrimenti andrà a finire che ci ritroveremo con meno patrimonio, che avremo venduto le cose più facili e appetibili, ma sempre con il debito esagerato e i quattrini che se ne sono andati in spesa corrente. Una roba simile certo non sarebbe una sana politica delle privatizzazioni, ma un’insana propensione alla dilapidazione.

Pubblicato da Libero

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