Economia

Quotazione sbagliata

Quotazione sbagliata

Sembra che gli italiani siano poco interessati alla sorte del loro patrimonio collettivo, considerandolo una specie di questione tecnica, per addetti ai lavori. La colpa è anche dei mezzi d’informazione, sempre pronti a cogliere e analizzare ogni sospiro politicante, ma poco disposti a rendere accessibili temi che meno si prestano a chiacchiere superficiali. Nel novembre scorso la Rai decise di portare in Borsa il 35% della società ove ha messo tutti i suoi impianti, RaiWay. La cosa è avvenuta nel disinteresse generale, nei soliti conformismi borsaioli (basta dire “quotazione” e già tutti si sentino gnomi della City e raffinati analisti), con relativo contorno di polemiche esagerate, a sfondo complottistico. Allora sostenni una cosa più semplice: vendere patrimonio per finanziare la spesa corrente è un modo certo per andare in rovina.

Era capitato che il governo avrebbe trasferito, alla Rai, 150 milioni in meno, raccolti con il canone, quindi dalle nostre tasche. Soldi che gli servivano per coprire altre spese. La Rai, dal canto suo, lungi dal tagliare i propri costi e le proprie spese, decise di rimediare vendendosi una quota di impianti. Siccome quel patrimonio è stato costruito con i soldi degli italiani, e siccome la Rai è una società dello Stato, a me pareva, e pare, che questo genere di dismissioni (positive) debbano servire non ad alimentare le spese, ma a far calare i debiti. Una famiglia sana, guidata da gente responsabile, se ha tre appartamenti e un debito troppo alto, talché s’impoverisce pagando gli interessi, ne vende uno e riduce il debito. Se, invece, ne vende uno per andare in vacanza e continuare a gozzovigliare, sappiamo per certo che quella famiglia si dirige verso la perdizione. Nessuno stette ad ascoltare.

Ora capita che il concorrente della Rai, Mediaset, offra di acquistare tre quarti o l’intera società. E anziché discutere sul prezzo e sulle modalità, magari sperando che ci sia chi è disposto ad offrire di più, si concentra lo starnazzare collettivo attorno al seguente punto: la società deve restare in mani pubbliche. Che è come dire: la portammo in Borsa perché ci mancavano i soldi con cui gozzovigliare, ma non intendiamo cedere un bel niente. Così, al di là di ogni altra considerazione, il patrimonio pubblico perde di valore (visto che lo si vende a spizzichi e bocconi), mentre il debito cresce per i fatti suoi.

Nelle stesse ore giunge la notizia che lo Stato ha venduto un ulteriore 5,7% di Enel, incassando 2,2 miliardi. La si legge nelle pagine economiche, in modo acritico, piatto, superficiale. Nulla più che per dovere di cronaca. Ma il punto è: dove vanno i soldi incassati? Perché se vanno a reggere l’equilibrio dei conti pubblici, aiutando il governo a non sforare il deficit previsto, è come dire che se ne vanno in spesa corrente, che è lo schema (pessimo) di cui sopra. Quando vendi patrimonio devi portare i soldi o a investimenti che ritieni siano in grado di aumentare la produzione di ricchezza, o a risolvere altri problemi patrimoniali, sfebbrando un debito pubblico che sta oltre il 130% del prodotto interno lordo. Cercate nelle cronache, strizzate gli occhi nella lettura, ma non troverete la destinazione.

Per carità, capisco bene che la politica politicante è un prodotto giornalisticamente più facile (vista la quantità di sciocchezze che si dicono è autorizzato un rinforzo di scemenze scritte), capisco che si presta meglio ad un racconto colorito e vociante. Ma, forse, è il caso che qualcuno avverta gli italiani: il vostro patrimonio va scemando, viene venduto e sbocconcellato, mentre i debiti che gravano sulla vostra testa, che comportano una notevole pressione fiscale, non scemano per nulla. Non è una problema tecnico, è una gran fregatura.

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