La politica tutta, di maggioranza e di opposizione, dovrebbe fare un grande favore a sé stessa e alla propria credibilità: cancellare il concetto di bonus dal vocabolario. L’idea di assegnarne a questi o quelli corrompe la ragionevolezza e induce a supporre che nessuno paghi. Né l’elargire bonus assicura una rendita elettorale, come dimostrano le sconfitte in capo a chi ne dispensò. All’ennesimo si smette di credere che sia un regalo e ci si convince che sia un diritto ma, a quel punto, quelli che pesano di più non sono i bonus che mi dai ma quelli che mi neghi. La gratitudine elettorale non va a chi li assegna, ma a chi ne promette altri.
Il Consiglio dei ministri prova a procedere con la realizzazione della delega fiscale. Il che è meritorio, benché la delega che il Parlamento votò sia a dir poco generica. Ieri, però, hanno dovuto rinviare. Perché i conti non tornano e così procedendo non torneranno. Il fatto stesso che il bonus tredicesima sia valido soltanto per il 2024 (sempre che lo varino) è un non senso che ha una sola ragione: mancano le coperture per gli anni successivi. Se è per questo mancano anche per il 2024, visto che pensano di pagarlo con il maggior gettito del concordato fiscale preventivo. Del tutto teorico.
L’idea da cui sono partiti era quella di un bonus per i percettori di reddito fino a 15mila euro. Fra gli italiani che presentano la dichiarazione dei redditi, quelli che dispongono di redditi inferiori a 15mila euro sono il 42%. Da loro arriva l’1,73% del gettito Irpef. Una quantità così alta e un esborso così basso da indurre a supporre che ci sia una possibile distanza fra dichiarante e dichiarato, fra contribuente e contributo versato. In ogni caso tutti questi italiani, come anche quelli dello scaglione successivo, contribuiscono al finanziamento della spesa pubblica infinitamente meno di quel che mediamente costano. Nel rinviare, però, fanno sapere che la bozza prevede il bonus per i redditi fino a 28mila euro. E i conti peggiorano.
I contribuenti che dichiarano fino a quella cifra sono il 77% del totale e versano il 25,73% del gettito complessivo. Quindi continuano a contribuire assai meno di quel che costano. Ciò significa che altri contribuiscono assai di più e finanziano i loro costi. Per questo si dovrebbe lanciare la campagna “Abbraccia un ricco”: per gratitudine. Salvo accorgersi che, in quelle dichiarazioni, i ‘ricchi’ scarseggiano e che quelli che onestamente o forzosamente dichiarano redditi superiori a 100mila euro sono pochissimi (1,39%) ma pagano moltissimo (22,25%). Mentre sarebbe bello il contrario: averne di più e pelarli di meno.
Naturalmente il bonus governativo non può andare né al 42% né al 77% degli italiani, che costerebbe una tombola, ma soltanto ai redditi da lavoro dipendente. E anche questa è cosa socialmente scivolosa: fra gli esclusi si troveranno bisognosi veri e fra gli inclusi doppi redditi di cui uno non dichiarato. Ma anche limitando il contributo ai soli dipendenti il totale è troppo alto, quindi l’idea è quella di porre delle limitazioni, tipo essere sposati e avere almeno un figlio. Ma qui si passa al barocco decadente e si veste di moralismo familiare la insostenibilità dell’idea. Tutto per riuscire ad annunciare una misura una tantum, non strutturale – quindi poco attinente se non confliggente con la delega fiscale – prima della scadenza elettorale.
Chi governa – in generale chi fa politica – ha il dovere di esporre la condizione dei conti pubblici, avendo cura di far vedere il legame fra l’imposizione fiscale e la spesa pubblica, talché ciascun cittadino possa valutare l’utilità e la congruità delle destinazioni. Se si trasformano i conti in racconti, intestandoli alla bontà e alla generosità, allora corre l’obbligo di ricordare che i soldi dati agli uni sono tolti agli altri, mentre i servizi finanziati con la spesa pubblica sono destinati a tutti. E per quei servizi, essenziali per le famiglie meno abbienti, ci saranno meno soldi da utilizzare.
Davide Giacalone, La Ragione 24 aprile 2024
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