L’idea è passata all’unanimità, nel consiglio d’amministrazione della Rai, ma è pessima: vendere una quota di RaiWay, o addirittura quotarla (quando si accorgeranno di quali sono i tempi e le regole passerà loro la voglia), per fare fronte alla mancanza di 150 milioni, che il governo intende trattenere dal gettito del canone. E’ pessima per due ragioni.
La prima è che si porterebbe capitale privato, o addirittura capitali dei risparmiatori, a essere investi in un’azienda dello Stato, che è l’esatto contrario di quel che serve, ma, inoltre, a pensare di lucrare grazie a un business, quello delle reti per la diffusione del segnale Rai, retto al 50% dal contributo pubblico, frutto della riscossione di una tassa. Una specie di operazione da socialismo di mercato, per non dire da statalismo grassatore.
I capitali privati, per giunta, verrebbero chiamati a scommettere sulla permanenza in vita del cliente, ovvero i canali Rai, quindi a puntare su una arretratezza del mercato italiano, che ancora prevede l’esistenza di un monopolio. Che non potendo più essere monopolio televisivo finge d’essere monopolio del servizio pubblico.
La seconda ragione è che torri e impianti di trasmissione Rai (quindi RaiWay) sono stati realizzati con i soldi degli italiani. Nel momento in cui si dismettesse patrimonio quei proventi non dovrebbero affatto andare a finanziare le spese della Rai stessa, ma a remunerare l’azionista unico, quindi lo Stato e con esso i contribuenti. Altrimenti si vendono quel che è anche mio per finanziare quel che resta solo loro. E’ un affare che non vorrei fare.
Per vendere bene il patrimonio, inoltre, non lo si dovrebbe dismettere a spizzichi e bocconi, al solo scopo di procurare quattrini a chi è già pronto a spenderli, ma a interi blocchi omogenei, in modo da trarne il massimo profitto possibile, restituendo al mercato strumenti produttivi.
Per queste due ragioni, trattasi di pessima idea. Solo due considerazioni ulteriori: a. l’unanimità in cda dimostra che le differenze fra destra e sinistra s’appannano e scompaiono, quando si tratta di amministrare assieme lo statalismo, anzi, s’annulla anche la provenienza dalle nobili istituzioni finanziarie e dall’amministrazione di aziende abituate al mercato, tutto dietro le spalle, quando sotto le terga ti ritrovi i soldi degli italiani; b. siccome la statolatria mercatofaga è ancora imperante, ma vagamente considerata meno à la page, ecco che si traveste con termini accattivanti: vendita, partecipazioni, capitale di rischio, quotazione, e così via borseggiando, ma la sostanza non muta d’un nulla: alla competizione per far crescere il mercato si predilige il monopolio per far crescere i mercati. Che non è la stessa cosa.
Pubblicato da Libero