Siamo ricchi o siamo poveri? Che ci siano degli squilibri è normale ed è da squilibrati credere nell’equidistribuzione della ricchezza. Il fatto è che l’Italia è uno dei Paesi europei con la più bassa distanza fra i redditi (misurata con l’indice Gini), posto che l’Unione Europea ha una sperequazione reddituale ben più bassa degli Stati Uniti. L’altro fatto è che non si sente parlare d’altro che di aumento della povertà, con la Caritas che certifica l’aumento degli assistiti del 62% in dieci anni, mentre l’Istat conta 5 milioni 694mila poveri assoluti, che compongono 2 milioni 217mila famiglie. Terzo fatto: i risparmi delle famiglie hanno superato i 6mila miliardi e sono capaci di risparmiare il 58% degli italiani. Che non soltanto è una percentuale cresciuta negli ultimi 20 anni, ma sono molti di più di quelli che dichiarano un reddito appena superiore ai livelli più bassi. Allora: siamo ricchi o siamo poveri? Siamo riccoveri, a seconda di come guardiamo la cosa e con quale orizzonte temporale. E quella differenza ci dice molto del fatto che il modo in cui ci piace raccontarci è diverso da quello in cui ci piace vivere.
Da noi la propensione al risparmio è sempre stata superiore alla media europea. Può sembrare una dimostrazione di saggezza e previdenza, ma è una spiegazione che mal s’accoppia alla bassa percentuale di assicurati. Nel dopoguerra risparmiavamo molto perché era viva la memoria della fame e non si sa mai. Si può risparmiare come formichine, anche per paura di tempi peggiori e, in effetti, più ascolti le trombe guerriere dei dazi trumpiani più vien voglia di prepararti a un futuro non trionfale. Molto si risparmia per il modo in cui viviamo la famiglia: dal punto di vista individuale non ha senso risparmiare in tarda età per essere i più ricchi del cimitero, ma ne assume uno se si sta pensando ai familiari. Difatti la propensione al risparmio è cresciuta fra chi ha più di 60 anni. Anche perché sono quelli con più sicurezza reddituale.
Il che porta all’altro aspetto, sempre ricordando che un povero in una società ricca è meno povero di un povero in una società povera: sembra un gioco di parole, ma è il modo stesso in cui definiamo la povertà che cambia. Dal 2007 al 2024 i poveri sono diminuiti fra i disoccupati e aumentati fra gli occupati. Sembra assurdo, ma ci racconta di una società ricca che ha saputo creare protezioni per chi perde il lavoro, ma non è riuscita a evolversi in modo da rendere ricco il lavoro. Troppi lavoratori a basso reddito indicano non la cupidigia della mano adunca del capitale ma una produttività bassa. Sono lavori poco pagati perché poveri. Non figurano in questo gruppo tanti giovani ben preparati, perché se ne vanno: abbiamo un’emigrazione (qualificata) più alta dell’immigrazione (non qualificata) e parliamo soltanto della seconda.
A questo si aggiunga che accoppiando la leva demografica (ovvero i figli che diminuiscono) e la condizione patrimoniale delle famiglie italiane (con l’altissima percentuale di proprietari di prime e seconde case) ne discende che i figli sopravvissuti saranno piccole potenze immobiliari, ma con reddito più basso o insicuro e magari residenti all’estero. Un problema serio, perché il patrimonio è anche un costo.
Gli altri poveri, dove sono? Quasi il 57% sono stranieri, il gruppo con meno garanzie e più alta elasticità nei rapporti di lavoro. Non pochi dei quali consentono ai nativi di avere collaboratori familiari, una condizione prima riservata ai ricchi. Poi ci sono quelli che hanno subìto rovesci, vuoi professionali o privati (come i rovinati da divorzi e alimenti).
Siamo ricchi, ma sempre più dipendenti dalle rendite e sempre meno capaci di far crescere la ricchezza prodotta. Per giunta ci perdiamo i giovani, sicura ricetta per fregarsi il futuro. A cercare un rimedio, a provare un colpo di reni, sarebbero dovuti servire i fondi europei per il Pnrr, ma che se ne parli poco e niente è il segno che, fra politici e cittadini, di tutto ciò vi è scarsa consapevolezza.
Davide Giacalone, La Ragione 24 luglio 2025
