Il Gruppo Generali ha una lunga e bella storia, sporcata dalle leggi razziali del fascismo. Milioni di italiani ne solo clienti. È stato ed è anche un centro di potere e di equilibri finanziari. Ora al centro di una strana danza.
I risparmi degli italiani si difendono facendoli fruttare e non tassandoli troppo. Difendere l’uso di quel risparmio per finanziare il debito pubblico è una cosa diversa e va raccontata per quella che è. Quel che decide di fare una compagnia di assicurazioni è sottoposto alla vigilanza e al giudizio del mercato. La prima a tutela della sicurezza e il secondo per stabilire se quelle scelte sono convenienti o no. Le voci che si levano dal mondo politico – la presunta difesa dell’italianità – intorbidano le acque.
Se ne capisce poco e niente se non si parte dai dati di fatto: lo Stato italiano è molto indebitato, ma gli italiani sono grandi risparmiatori, al punto che produciamo più risparmio di quello che si riesce a investire in Italia. Quindi lo investiamo all’estero, cercando guadagni nel favorire la crescita altrui. Non cambia niente se il gestore cui mi rivolgo è italiano o straniero, perché quello che a me risparmiatore importa è che faccia fruttare i miei soldi e non me li faccia perdere o svalutare. Se il risparmio di altri affluisse copioso in Italia non potremmo che esserne felici, ma se il risparmio italiano defluisce verso mercati più dinamici, Borse più significative, intraprese più profittevoli non possiamo che esserne felici per quei risparmiatori.
La politica che volesse veramente non soltanto trattenere il risparmio ma attirarne da fuori, non dovrebbe far altro che agevolare la competizione interna, varare le riforme che servono per non soffocare d’inutile burocrazia, far funzionare la giustizia, colpire le rendite parassitarie e mettere gli operatori economici nelle condizioni di correre. Se invece si vuole avere a che fare con istituti di credito e assicurativi più influenzabili dalle richieste politiche – al netto delle miserie che talora sconfinano in reati – è perché si vuole usare i loro polmoni finanziari per dare aria al boccheggiante debito pubblico, comprandone i titoli (Generali ha in cassa 37 miliardi di Btp). Che è pur legittimo, ma è cosa ben diversa dal tutelare il risparmio.
Certo che una compagnia assicurativa non può fare di testa sua, tanto che esiste (dal 2012) l’Ivass (Istituto di vigilanza sulle assicurazioni), presieduto dal direttore generale della Banca d’Italia. Gli investimenti devono essere prudenziali e il patrimonio è a garanzia delle polizze stipulate e dei fondi venduti. Sono soldi che il risparmiatore potrebbe volere incassare domani. Ma se Generali Investment Holding (nel cui capitale si trova già il 16,75% di Cathay Life) intende apportare 650 miliardi a una nuova società, divisa al 50% con la francese Natixis Investment Managers, la vigilanza è chiamata a fare quel che il nome suggerisce, mentre strillare alle mani francesi sui risparmi degli italiani non ha senso. Non soltanto perché lo sono a metà, ma perché quei risparmiatori saranno premiati da un successo e penalizzati da un insuccesso e stanno facendo amministrare i loro soldi da chi considera conveniente l’operazione. Senza avere sentito il bisogno di acquisire l’opinione dell’onorevole deputato dichiaratore a naso.
Generali è per noi italiani un gigante ma in Unione europea è il terzo gruppo, dopo Axa e Allianz. Chi sa di che sta parlando conosce l’opportunità dello spazio bancario e assicurativo europeo, nel quale devono affermarsi campioni continentali. O si cresce o si va fuori mercato. E pensare che un azionista del Paese Papalla voglia controllare i risparmi per investirli nelle imprese papalliane – anche se meno profittevoli, ma a lui care – equivale a pensare che il papallone fallirà in fretta. Né a mantenerlo in vita servirà il coretto stonato dei politici che giocano ancora con le figurine nazionali, finendo con l’aiutare i tedeschi che oggi preferirebbero non avere fra le papalle una banca italiana.
Davide Giacalone, La Ragione 23 gennaio 2025