Il problema non è perdere 21 mila posti di lavoro, fra novembre e dicembre scorsi, così come, del resto, l’Eldorado non è averne 109 mila in più del dicembre 2014 (vorrei anche vedere, essendo quello l’ultimo anno di una lunga recessione!). Il problema è che la ripresa italiana decelera anziché accelerare. I dati dell’occupazione sono solo un segnale. A settembre (2015) se ne perse lo 0.2% rispetto ad agosto, la stessa cosa accadde a ottobre, a novembre se ne recuperò uno 0.2, ora sappiamo che a dicembre se ne è nuovamente perso lo 0.1. Recuperiamo meno della media europea e nettamente meno di quanti hanno preso una botta recessiva paragonabile alla nostra. Quando la flotta riparte la nostra imbarcazione procede a velocità inferiore. Quando rallenta noi rallentiamo ancora di più. In entrambe i casi il nostro svantaggio relativo cresce. Questo è il problema.
Giocarsela sul piano della propaganda è da sciocchi. Gli ultimi dati Istat segnalano anche una diminuzione dei giovani disoccupati, che comunque sono il 37.9%. Ma il dato rilevante è che abbiamo un tasso di occupazione fermo al 56.4%. Vuol dire che lavora assai meno gente della media europea. Teniamo legioni di donne e di giovani fuori dal mondo produttivo, a far da zavorra, perdendo velocità. E’ sciocco sostenere che tutto dipenda dalle scelte del governo in carica, almeno quanto sostenere che quelle scelte hanno risolto i problemi. Bubbole, è la macchina ad avere un motore potente, ma imballato.
Giocarsela in polemica con la Commissione europea, reclamando più deficit da non contabilizzare nel patto di stabilità (che comunque resta deficit e diventa debito, quindi è droga ai drogati, veleno agli avvelenati, non panacea), sparacchiare conto i “burocrati” dello “zerovirgola”, non è solo sciocco: è da incoscienti. Anche Martin perse la cappa per un punto. Anche alle olimpiadi si perde o si vince per lo zerovirgola di un secondo. Il fatto è che tutta la nostra crescita acquisita è uno zerovirgola e che, come ha ricordato il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, l’Ue sarebbe ancora in recessione, se non ci fossero state le politiche monetarie espansive. E noi siamo quelli che ne hanno beneficiato di più, considerato che il solo vero taglio alla nostra spesa pubblica è stato fatto a Francoforte, abbassando i tassi d’interesse e comprando i titoli del nostro debito pubblico. Sicché è anche poco accorto continuare a biascicare le frasi fatte sulla presunta austerity, indotta dall’Ue, essendo vero il contrario, ovvero che in quell’ambito le politiche sono espansive e non restrittive.
Traducendo in italiano, però, si tende a credere che sia sadica austerità e perversa fissazione contabile il far osservare che se spendi più di quello che incassi, e se lo spendi non in investimenti produttivi, ma in assistenzialismo e regalismo (reincarnazione del clientelismo), fai crescere il debito che dovresti far diminuire. Questo non è rigorismo esasperato, è contabilità. Tutti i governanti europei sanno che si possono vincere le elezioni spendendo e blandendo gli elettori, ma si tende a ricordare che dopo avere vinto, in quel modo, si dovranno raccogliere i cocci di un sistema produttivo frantumato dal fisco, necessario per spillare i quattrini altrove dilapidati. Solo dalle nostre parti, sentendosi furbi, si pensa che dopo avere vinto hai vinto e basta. Al resto il ciel provvede.
Sullo sfondo già si vedono gli enormi scogli del fiscal compact. Che quando furono piazzati sulla rotta (2012) mi sembrarono (da europeista, eurista e rigorista) impraticabili. Avremmo dovuto tagliare la spesa e abbattere il debito, li abbiamo visti crescere entrambe, buttando il tempo comprato dalla Bce. Avremmo dovuto aumentare la velocità di crociera, che invece resta inferiore a quella altrui. Senza alleggerimento e sprint ci sarà un impatto doloroso, servendo a nulla maledire i marosi o le rocce. Ma gli ufficiali distribuiscono rum e la ciurma sbevazza lamentosa. Sperano nella mano di Nettuno, che si muove nel regno dell’impottibile.
Pubblicato da Libero