Economia

SciVolare

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I dati elaborati dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) hanno colpito per l’aspetto relativo all’impoverimento dei salari, ma vi sono altri aspetti rivelatori. I salari potrebbero essere pure troppo generosi. In quei dati si nascondono anche elementi incoraggianti, se compresi.

L’Italia è il Paese con meno differenza di genere nel salario orario e se le donne guadagnano di meno e fanno meno carriera è perché lavorano di meno. Posto che le donne sono già poco presenti nel mercato del lavoro e i dati di cui parliamo si riferiscono a quelle che lavorano, è escluso che lavorino meno perché ne abbiano meno voglia. Lo fanno perché hanno meno tempo. Dal che discende che se si insegue (giustamente) la parità di genere non la si deve cercare nei contratti – facendone un costo – e nelle leggi, ma nei servizi che liberino il tempo dell’assistenza. E siccome l’Italia è il Paese Ue a più bassa natalità, l’assistenza di cui parliamo riguarda in larga misura gli anziani. Realisticamente è a quello che si deve dedicare attenzione, tenuto anche presente che gli anziani sono redditieri sicuri ed è più dignitoso utilizzare quella loro ricchezza per avere sedi e servizi adeguati, piuttosto che essere lo scambio con il minore tempo disponibile per i conviventi.

Le posizioni dipendenti di più alto livello (i dirigenti) le paghiamo meno rispetto agli altri europei; in più l’ipocrisia fiscale – che finge che la soglia dei 30mila euro lordi sia quella oltre la quale si entra nella ricchezza – fa sì che il già magro guadagno venga troppo fiscalizzato. Dopo di che è inutile chiedersi perché i giovani italiani, se possono, vanno a lavorare altrove: guadagnano di più e hanno maggiori prospettive di carriera.

Nel tenere bassa la media dei salari contribuisce il fatto che gli immigrati al lavoro ricevono una paga mediamente inferiore del 30% rispetto ai nativi. Occasione per imprese e famiglie di pagare meno, ma anche meccanismo che attira immigrati a bassa qualificazione, cioè quelli che contribuiranno meno alla crescita della ricchezza e creeranno più problemi. Non la scelta più saggia.

Dal 2008 a oggi i salari hanno perso l’8,7% del valore reale, ma la produttività è andata anche peggio e la perdita è stata maggiore. Se si va a guardare il rapporto fra potere d’acquisto dei salari reali e produttività nei Paesi in cui sono cresciuti, si vede che la produttività è cresciuta più dei salari. Quindi, paradossalmente, i salari italiani restano i più alti in rapporto alla produttività, salvo che quella è crollata. Poi andiamo a guardare non la media generale, ma la condizione delle nostre imprese e i settori che esportano e competono nel mondo: ecco che la produttività non è calata, ma i salari sono rimasti dentro i cardini dei contratti nazionali, con  qualche meritevole contratto integrativo.

È lì il nostro problema, che ingigantisce un ritardo europeo rispetto agli Stati Uniti: perdita di produttività a causa di perdita di formazione, investimenti, ricerca e innovazione. Cose che si ottengono facendo crescere la dimensione delle aziende, creando campioni europei – come ora è possibile fare nelle tecnologie relative anche (anche) alla difesa – che a loro volta si sostengono con un mercato unico dei capitali europei, che non si rassegni a esportare 300 miliardi di euro l’anno di risparmi negli Usa o dove altro rendano di più.

Proprio osservando nella loro crudezza le nostre debolezze se ne vede anche la promessa di forza. Fare dell’istruzione una leva produttiva non significa sminuirla, semmai valorizzarla. Servono meno burocratismi e più controlli – costanti – di qualità e produttività. E i docenti che affermano non si possa misurare la scuola li si può mandare a studiare. Lavoriamo in troppo pochi e galleggiamo, ma significa anche che abbiamo lavoratori di riserva da chiamare all’attività. L’idea che il benessere consista nel liberarsi dal lavoro può produrre soltanto malessere. Anche umorale.

In quel che ci fa scivolare c’è ciò che può far volare. Ammesso che lo si voglia e non sia consolatoria la rassegnazione a spese altrui.

Davide Giacalone, La Ragione 26 marzo 2025

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