Non è una tecnica nuova e non ha a che vedere soltanto con il governo in carica. Si dovrebbe quindi provare a ragionarne senza nulla concedere alla faziosità politica o di schieramento. La tecnica di utilizzare coperture finanziarie temporanee per spese che si annunciano come costanti e ripetute nel futuro non è una furbata da stregoni dei bilanci ma una corruzione della percezione pubblica, un volano di inaffidabilità e una garanzia di inefficacia. Il danno che si crea supera la portata della spesa o del mancato gettito che si imposta.
Già l’anno scorso, ad esempio, sia la limatura del cuneo fiscale (la differenza fra il salario lordo che l’azienda contabilizza come costo del lavoratore e il netto che quest’ultimo incassa) sia le limature al peso dell’Irpef (l’imposizione sul reddito delle persone fisiche) sono state finanziate soltanto fino al 31 dicembre 2024. Sicché si pone il problema del loro rifinanziamento, che si annuncia già come un’ulteriore copertura temporanea, per il solo 2025. Pessimo modo di procedere. Ora gli assegni non si usano più, ma quella condotta assomiglia a quelli che si chiamavano simpaticamente ‘cabrio’, ovvero assegni scoperti e postdatati: ti devo dei soldi, devo fare un pagamento, non ho i mezzi per farlo e allora firmo un assegno per il quale conto di avere i quattrini alla data in cui dovrà essere incassato. Per i privati era ed è un illecito. Per lo Stato sembra essere una tecnica di cui andare fieri.
Inoltre è un raggiro. Se una spesa si ripete ogni anno non viene accettata come ‘copertura’, come assicurazione che si sarà sempre in grado di onorarla, un’entrata una tantum, perché quella si realizza una sola volta, mentre la spesa tutte le volte. Quando si annuncia di avere tagliato il cuneo fiscale o di avere aumentato l’area di non tassazione o fatto scendere le aliquote Irpef, lo si annuncia come provvedimento permanente (e sarebbe ridicolo il contrario), ma siccome non si sa dire come sarà coperta in futuro quella spesa (o mancato incasso) si apposta quel che serve a coprirla solo per l’anno successivo. Quindi non viene contabilizzata come permanente, pur avendola annunciata come tale. Una presa in giro. E siccome né i cittadini né il sistema produttivo sono degli sprovveduti, i più se ne rendono conto e in quello stesso momento la misura perde gran parte della sua (sperata) efficacia.
Se mi dicono che il mio salario netto sarà di poco più alto quest’anno e forse l’anno prossimo, sono moderatamente contento ma non per questo faccio investimenti che comportano una spesa ricorrente anche per gli anni successivi. Se mi dicono che il lavoratore mi costerà qualche cosa in meno quest’anno e forse il prossimo, sono moderatamente contento ma non per questo aumenterò assunzioni che dovrò pagare anche oltre quell’asfittico orizzonte temporale. Sia gli investimenti che le assunzioni si fanno comunque, perché sono convenienti e utili ove seguano gli interessi di chi compie quelle scelte: si fanno, direbbe Totò, «a prescindere». Il che rende fiacca e inaffidabile la politica fiscale.
Si consideri inoltre che, come sosteneva Luigi Einaudi, il virtuoso pareggio di bilancio era già nel testo originario della Costituzione, ove si prevedeva (art. 81) che nessuna spesa potesse essere autorizzata o prevista per legge se non indicandone la copertura. Quell’articolo nel 2012 è stato reso più stringente da una riforma – fatta dalla destra, relatore l’attuale ministro dell’Economia – per ottemperare agli obblighi di cui all’europeo Fiscal Compact del 2011. Da allora non c’è stato un solo anno in cui sia stato rispettato e si è continuato nel costume invalso negli anni Sessanta: ritenere una copertura l’accensione di nuovo debito. Si sono considerate parole al vento quelle iscritte nella Costituzione. E si continua mostrandosene orgogliosi quasi fosse una conquista, laddove si tratta di una condotta di cui sarebbe più saggio aver pudore. Tanto più che quell’effimero dare ha un costo che promette il prendere.
Davide Giacalone, La Ragione 30 agosto 2024