Nel mentre c’è bisogno di vere privatizzazioni e liberalizzazioni, si fanno pastrocchi che bruciano ricchezza. Il comune di Milano vuole quotare in Borsa la Sea, società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa, ed è appena iniziato il road show. Che ha aspetti davvero spettacolari. Il lettore non creda che sia una faccenda per addetti ai listini. E’ una partita nella quale si riconoscono i mali profondi dell’Italia, con le solite arretratezze e furbizie. Quotando Sea si riesce, in un colpo solo, a: 1. creare l’ennesimo animale misto, mezzo municipalizzata e mezzo società quotata, nell’ulteriore privatizzazione senza mercato; 2. bruciare patrimonio pubblico; 3. predisporre una fregatura per i risparmiatori; 4. ignorare l’interesse nazionale. Strike.
1. Nel corso della campagna elettorale Giuliano Pisapia aveva assicurato che il comune di Milano non sarebbe sceso sotto il 50% delle azioni Sea. Che quella, quindi, sarebbe rimasta una municipalizzata, continuando a rispondere alla politica. Vale per tutte le municipalizzate: quotare in Borsa le giunte comunali, la loro stabilità e i loro indirizzi è pessimo costume. Non essendo società contendibili, del resto, i soldi che si chiedono al mercato servono solo a finanziare le scelte municipali. Mostriciattoli ai quali si può pure far parlare l’inglese della finanza, ma non saranno mai veri soggetti di mercato. Si dovrebbe vendere tutto, o tenere nel portafoglio pubblico solo una minoranza.
2. Nel caso Sea ci si appresta a bruciare patrimonio pubblico. Perché un anno fa è entrato nella compagnie azionaria il fondo F2i, per un 29,9%. La valorizzazione messa in capo a quell’acquisto ammontava a 1,265 miliardi. Con la quotazione si metterebbe in vendita il pacchetto detenuto dalla provincia di Milano (14,46%) e il comune si diluirebbe, mediante aumento di capitale, al 48% (con ciò violando la promessa elettorale, del che non mi dolgo, perché lo porterei al 5, ma sempre promessa tradita è). Il che significa perdere il valore del premio di maggioranza, che si conserverebbe ove si vendesse veramente. Ma c’è di più: il valore di collocamento sarà fra 800 e 1.075 milioni. Il che non solo rappresenta una diminuzione rispetto a quel che pagò F2i, non solo comporta una perdita per la provincia, che in bilancio valorizza Sea per 1,1 miliardi, ma è una forchetta largamente ottimista, perché solo due dei numerosi investitori istituzionali interpellati hanno detto di essere disposti a pagare 900. Quindi, riassumendo: mentre la gente sensata va in Borsa per aumentare la propria valutazione patrimoniale, la Sea ci va per diminuirla. E il patrimonio del comune, per chi se ne fosse dimenticato, è dei cittadini.
3. I quali saranno fregati anche in quanto risparmiatori. Perché siccome scarseggiano investimenti spontanei, dato che nonostante la perdita secca messa in programma il prezzo richiesto resta troppo alto, si punterà a quelli spintanei. Quali? sono quelli effettuati da fondi d’investimento, da prodotti bancari (con un sistema connivente e salottardo), da veicoli i cui investitori-risparmiatori non sapranno mai di avere comprato azioni Sea, ma constateranno di avere perso ricchezza. E più resteranno fermi più perderanno, il che non è difficile da prevedere se solo si guardano i dati del traffico aerei, merci e passeggeri che passa dai due aeroporti: in crollo. Dice Giuseppe Bonomi, presidente Sea: le nostre azioni renderanno più dei Btp. A parte l’idea, bislacca assai, di una municipalizzata che fa concorrenza allo Stato, a parte il paragone fra azioni e titoli del debito pubblico, c’è un dettaglio: i Btp sono sicuri.
4. Si ciancia d’Italia patria dell’industria del turismo, dell’arte, dell’archeologia e delle bellezze naturali, ma manca anche solo un serio piano aeroportuale, oltre a essere deficiente il sistema ferroviario (fuori dalle linee ad alta velocità) e patetica la situazione autostradale. Se Sea, come le altre società che gestiscono aeroporti, viene considerata faccenda comunale, e non nazionale, è segno che si perpetua l’arte del suicidio turistico.
Sarebbe saggio: a. concentrare le partecipazioni societarie di tutti gli scali rientranti in un piano nazionale aeroportuale; b. compiere le scelte politiche necessarie a valorizzare quegli scali, anche aprendo ad una concorrenza che può devastare Alitalia (ma meglio che devasti Alitalia piuttosto che l’Italia); c. condurre una politica univoca e coerente di dismissioni, in modo che sia consegnato al mercato finanziario un sistema efficiente e contendibile; d. il tutto dopo avere messo nero su bianco i contratti di servizio, talché non sarà il colore o la nazionalità della proprietà a cambiare gli investimenti da farsi e la qualità da rispettarsi; e. usare i soldi delle dismissioni per due terzi destinandoli ad abbattere il debito pubblico e per un terzo a investimenti infrastrutturali.
Quella in corso a Milano è, invece, un’operazione priva di senso e destinata a finire in dilapidazione, finalizzata a mettere qualche soldo in casse pubbliche capaci di divorarli in tempo reale. Già sono stati presentati dei ricorsi, ma del fatto che si apra un’inchiesta nel 2015, a frittata fatta e uova sprecate, non sapremo cosa farcene.