Vi racconto come si fa a buttare via i soldi. Montagne di soldi, fino a poco meno di 30 miliardi da qui alla fine del 2015. Si badi: non a sprecarli e nemmeno a rubarli, ma letteralmente a buttarli via, a perderli, talché anche il rubare, che è attività esecrabile e criminale, già sembra meno grave di quel che avviene. Sto parlando dei fondi europei, capaci di attirare sull’Italia il ludibrio continentale. Ma come, ci dicono, reclamate di potere fare investimenti e far crescere la spesa pubblica e poi non prendete soldi dell’Unione, a quello destinati? I gran festeggiamenti avviati da Enrico Letta, che hanno coinvolto tutti e partono dalle parole di Manuel Barroso, festeggiamenti largamente infondati e azzardati, si basano sul seguente annuncio: forse, chissà, magari, sarà possibile allentare il patto di stabilità per i progetti cofinanziati fra Ue e Italia. Ciò vuol dire che, fermo restando il vincolo del 3% di deficit, sarà possibile mettere soldi italiani in quei progetti, anche se sforano un po’. Il problema, però, sono i progetti.
L’opinione pubblica è tenuta all’oscuro della faccenda, o informata sommariamente. Guardiamo dentro questo bottino. Userò un esempio pratico: 27 milioni di fondi strutturali destinati alla Sicilia, per spese che ne aumentino l’ospitalità e l’efficienza energetica. Soldi con cui si potrebbero fare alberghi o villaggi. E’ solo un esempio, ma seguite questo gioco dell’oca: 1. dopo l’atto europeo che mette a disposizione quei fondi il governo siculo, nel 2010, prepara un bando, in modo che gli interessati presentino candidature e progetti per usarli; 2. il bando viene bocciato dalla Corte dei conti, perché prevedeva l’affidamento all’esterno della valutazione; 3. cambia l’assessore e ne arriva uno (oggi agli arresti domiciliari, ma per altra questione) che inserisce le isole minori fra le aree interessate; 4. il dipartimento programmazione, del medesimo governo, la pensa diversamente e il tempo corre; 5. nel 2012 si fa un nuovo bando, la cui scadenza è fissata al luglio di quell’anno; 6. siccome le domande presentate era solo una quarantina, il termine viene spostato al 18 settembre; 7. e siccome subito dopo ci sarebbero state le elezioni regionali, l’assessore di allora pensò bene di spostarlo nuovamente, di un mese, facendo campagna elettorale reclamizzando quei succosissimi 27 milioni; 8. l’assessore in questione non fu rieletto, sicché la cosa non gli portò gran fortuna, ma le domande, a fine ottobre, erano divenute 1.320; 9. a novembre, assieme al nuovo governo, di Rosario Crocetta, s’insedia la commissione che deve giudicare, ma scopre di non avere il personale a disposizione e alcuni commissari si dimettono, ma non subito, con calma; 10. arriva un nuovo direttore, proveniente dai beni culturali, e, dopo attenta riflessione, constata di non avere il tempo per esaminare tutte quelle carte; 11. quelli che hanno presentato documentazione seria hanno dovuto anche accendere una fideiussione, e ciò vuol dire che ci sono molte imprese che si sono caricate di costi, al momento inutili; 12. il momento dura ancora poco, perché se non si chiude la faccenda entro luglio e non si spendono i soldi entro dicembre, i 27 milioni si vaporizzano e tornano a Bruxelles. Così siamo alla casella iniziale: senza soldi, con tempo perso e con un capolavoro di burocrazia che, però, è costata. Eccome se è costata.
Solo in Sicilia sono circa 600 i milioni in condizioni simili. Solo per i beni culturali e il turismo, e solo per un bando, sono circa 700. Ma l’Italia frappone fra il mercato e quei soldi (che sono soldi nostri, presi dalle tasse) un muro d’ottusità burocratica, di responsabili non nominati, di commissioni non operative, di ricorsi sempre ridiscutibili, di sostanziale fuga dalle responsabilità. Il tutto in un’orgia di competenze sempre incerte e di scaricabarile a cascata. Ed è con questa formula magica che riusciamo a ottenere il miracolo: i soldi ci sono ma non si prendono, lasciandoli tornare al mittente, per la gioia degli altri. C’è di peggio: spesso ministri e burocrazia ministeriale sono più interessati alla parte dei soldi che defluisce verso consulenze e prestazioni professionali preventive che non alla parte, di gran lunga maggiore, destinata agli investimenti. Della grande torta europea prendiamo il cucchiaino per chi sta vicino al tavolo, il resto lo restituiamo. Non siamo a dieta, siamo dei cretini. Doppi, quando anche festeggiamo per quel che s’è dimostrato non sappiamo fare.
Gli artefici di questo andazzo, che sono tanti, meriterebbero condanna per procurata povertà. C’è un modo per debellarli: tutto pubblico, tutto on line, tutto verificabile sulla base di un cronoprogramma preventivo. Al primo ritardo scatta l’allarme e la sostituzione dei responsabili. Se non ne sono capaci è un’ottima occasione per mandarli a un corso di aggiornamento. Nel mentre: fuori dalle scatole.
Pubblicato da Libero