Salveremo le banche, hanno detto a Washington i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali europee. La domanda è: chi salverà i ministri e i governatori? La crisi che viviamo ha tarlato la credibilità dei debiti sovrani, quindi degli stati come affidabili pagatori di quel che devono al mercato. S’è accanita contro i paesi dell’euro proprio perché questi hanno disattivato le convenzionali uscite di sicurezza, convinti che dentro il club della loro moneta unica nulla sarebbe mai potuto accadere di male. Abbiamo buttato via quattrini per provare a placare le fiamme degli spread, ritrovandocele sempre più alte. Non soddisfatti, ci s’accinge a buttarli per salvare le banche, a loro volta zeppe di titoli ufficialmente sicurissimi e sostanzialmente erosi. Ne buttiamo a vagonate per non volere e dovere ammettere che nell’area di una sola moneta non possono esistere né debiti né banche nazionali.
Vedo in giro il riverbero di una cultura marxiana, ma adattata a poveri di spirito e ignari di Treviri. Si dice che i governi sono troppo piccoli e troppo deboli per potersi, da soli, opporre ai mercati e, quindi, si cercano gli strumenti con cui assecondarli e convincerli a non cancellare l’esistenza stessa dei governi. Ma questi ultimi sono debolissimi perché hanno dimenticato la ragione della loro esistenza, né hanno il coraggio di dire che i mercati sono divenuti una bestia ingestibile perché la finanza è stata lasciata per troppo tempo e per troppo spazio priva di regole e controlli: prima ha supposto di potere cancellare il rischio, affievolendone la percezione, ora il mostro si volta e diffonde il terrore, affievolendo la percezione della realtà reale.
Non c’è una via d’uscita tecnico-finanziaria. Per riuscire a svegliarsi e interrompere l’incubo si deve far ricorso alla forza che merita d’essere più forte: la politica. In Europa significa riunire i capi di Stato e di governo e fissare regole e tappe dell’integrazione fiscale e istituzionale, oppure, all’opposto, dirsi addio. Ma restare sull’uscio, nel mentre quello batte sugli attributi, è demenziale. Puoi comprare titoli del debito pubblico e ricapitalizzare la banche quanto vuoi, finché resti nello stipite sarai massacrato. E siccome le nostre sono democrazie, questo vuol dire che cadranno governi inetti e prenderanno il loro posto le inette opposizioni, fino a quando non si avrà la forza di dire: basta, siamo i più ricchi al mondo, ma anche i più pazzi, abbiamo creato un euro che non regge e c’incaponiamo a difenderlo com’è, anziché rafforzare istituzionalmente l’Europa.
Al G20 significa porsi il problema di una finanza seguendo la quale sembra che il globo sia venti volte più grande di quel che è, per giunta con la pretesa di commerciare terre inesistenti e mettendo a tacere chi ne mette in dubbio la ragionevolezza con un alzata di spalle: è il mercato, e se non lo capisci sei un troglodita. Invece no, non è il mercato: è il frutto di una superstizione, secondo la quale le sue regole e i suoi protagonisti sono migliori di quelli della politica. Sono solo più ricchi. Il mondo paga l’illusione che esista mercato senza Stato. Noi paghiamo l’incoscienza di aver selezionato la politica allargando il pericolo del debito. Noi europei abbiamo supposto eterno e dovuto il welfare state, noi italiani abbiamo supposto di potere a lungo mangiare a sbafo. Capolinea. Molte pagine devono essere girate e la politica deve tornare al posto che le compete. Certo, per farlo occorrono politici all’altezza, selezionati per idee, coerenza e coraggio. Non cercateli fra i presenti, sono figli di un’altra storia.