Economia

Tagli e sviluppo

Tagli e sviluppo

Un manipolo di tagliatori s’aggira per l’Europa, pressato dall’impossibilità di sostenere il debito pubblico. Il continente che teorizzò le virtù del deficit, il ruolo espansivo della spesa pubblica e le meraviglie del welfare state, si trova a fare i conti con un tenore di vita superiore alla produzione di ricchezza, con debiti accumulati negli anni e con la necessità di ridurli. Greci, spagnoli, portoghesi e irlandesi hanno già assaggiato l’effetto della scure, che continuerà nel tempo. I francesi occupano le piazze per una riformina minimalista, che eleva a 62 anni l’età pensionabile dopo averla fatta scendere a 60 e avere ridotto, per legge (ridicolo), l’orario settimanale di lavoro. Gli inglesi hanno ascoltato l’annuncio di un programma affilato, con tagli al welfare e licenziamento, in cinque anni, di 490 mila impiegati pubblici. I tedeschi, che corrono più forte di tutti, hanno introdotto nella Costituzione il pareggio di bilancio, cui il nostro Quintino Sella puntò con la politica della lesina. E noi? che cosa capita, dalle nostre parti?

In un clima forsennatamente fazioso si fa fatica a ragionare, come anche a raccontare la realtà. Abbiamo fatto molto e meglio di altri, ma corriamo il serio rischio, per mancanza di determinazione e coraggio, di perdere l’occasione offertaci dalla crisi. La prima parte dell’affermazione viene liquidata come acriticamente filogovernativa, la seconda come fomentatrice di ansie e paure. Ma solo separandole si ottiene il decadimento a mera propaganda. Che non c’interessa.

La nostra riforma delle pensioni è più incisiva di quella francese, ma è stata approvata senza sconvolgimenti e piazzate. La riforma del pubblico impiego, con l’introduzione della mobilità e del premio alla produttività, ha una portata epocale, se paragonata ai decenni di lassismo e disattenzione alla qualità. Certo, il congelamento della contrattazione integrativa (che diminuisce la spesa) ne surgela alcuni effetti, l’indisponibilità dei soldi necessari a valorizzare il merito ne pospone alcuni effetti, ma il nuovo impianto legislativo è già stato approvato, pronto a funzionare (se non verrà scassato prima). La riduzione del turn over induce la diminuzione dei dipendenti pubblici. La lotta all’assenteismo ha dato effetti non secondari, se non altro d’etica pubblica, e l’introduzione dei certificati medici digitalizzati avrà conseguenze strutturali, consentendo controlli fin qui meramente teorici. Potrei continuare, ma l’elenco completo comprende anche la promessa di stabilizzare i precari nella scuola e promuovere i ricercatori universitari (che precari non sono manco per niente), con aumenti della spesa e nessun guadagno di qualità. Credo che, per ampiezza, l’esercito che lavora nella nostra istruzione pubblica sia secondo solo a quello della Repubblica Popolare Cinese. Incrementarne le fila non è saggio.

Molte cose buone sono state fatte, ma non mancano le cattive. Ed è vero che i nostri ammortizzatori sociali hanno attutito il colpo della crisi, ma è anche vero che sono parte di un sistema produttivo che perde competitività da quindici anni. E’ inutile prendersela con la Banca d’Italia se somma i disoccupati agli inoccupati finanziati, perché il risultato che conta è quello della produttività, del costo per unità di prodotto. Qui siamo in difficoltà. E’ vero quel che dice il governo: l’Italia esce più lentamente di altri dalla crisi per ragioni che hanno radici antiche. Ma la domanda è: cosa si sta facendo per reciderle? Poco. Intanto, però, siamo caduti più velocemente e profondamente degli altri, a dimostrazione che quei guasti portano male.

E’ un buon successo avere ottenuto dall’Unione Europea la valutazione del debito privato, accanto a quello pubblico (enorme, il più alto di tutti). Anche se non ho capito come. E’ un bene perché nessuno assennato desidera che la mannaia sia in mani europee. Ma attenti a non occultare il paradosso: che siano le famiglie (poco indebitate) a dover garantire per lo Stato è grottesco. Aveva un senso con le monete nazionali, quando il debito pubblico era collocato prevalentemente all’interno, oggi, invece, rischia di divenire la santificazione di un sistema che rinuncia al debito privato (che comporta libertà di scelta nella spesa) a favore di quello pubblico (che genera spesa improduttiva, sottraendo libertà ai cittadini).

Gli effetti della crisi sono stati gestiti bene, dal nostro governo. Forse come meglio non era possibile, considerato anche che il nostro deficit è inferiore a quello di molti altri. Ma la stessa crisi avrebbe dovuto dare la forza di svellere le resistenze egoistiche e conservative, impostando una politica che non si condanni alla lesina per tutta la durata del debito esorbitante, quindi per molti anni. Il rigore  e la saggezza non si misurano con le piazze in subbuglio, e neanche con il sangue versato facendo roteare le lame, bensì con le misure strutturali che comprimono la spesa corrente odierna allargando gli spazi dello sviluppo e del mercato, quale unica strada per governare il debito senza strangolare i debitori. Questo è il pezzo che manca, questo il contenuto delle riforme, ancora promesse.

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