Economia

Tagliano i tagli

Tagliano i tagli

Con la spending review proposta al Parlamento il governo taglia poco e riforma ancora meno. Il Parlamento la emenda in modo da tagliare meno e riformare affatto. Il dramma è racchiuso in quest’accoppiata d’incapacità, in questo disperato tentativo di conservare l’indifendibile. Siccome poi i soldi da qualche parte si deve prenderli vanno a cercarli dove sanno che è facile: nelle tasche degli italiani, e questa genialata si ripone sempre, da ultimo con le regioni che hanno scavato buchi sanitari, che si vedrebbero autorizzate a far pagare un anno in più di addizionale Irpef. Niente tagli agli sprechi, quindi, ma loro rifinanziamento.

Una delle prove di questo andazzo si trova nella sorte delle così dette “società in house”. Il lettore non ci caschi, non creda siano tecnicismi non alla portata di tutti, perché queste sono materie nelle quali l’oscurità dei concetti è funzionale alla permanenza degli sprechi e delle rendite di posizione. Sono cose che non le capisce solo chi non vuole o fa finta di non capirle.

Il governo inglese, per dirne una, procede spedito nella esternalizzazione delle funzioni, anche burocratiche. Il principio è: tutto quello che il mercato può fare lo farà con spese e sprechi minori, con maggior controllo di qualità e con minori margini di disonestà della pubblica amministrazione. Non si tratta, per carità, di sostenere che il privato è bello mentre il pubblico è fetente, ma di riconoscere che le sacche d’improduttività coltivate dall’amministrazione pubblica sono superiori a quelle consentite dal mercato. Consegnando quelle funzioni si risparmia, perché il prosciugarsi dell’improduttività si traduce in un minore costo (oltre a far crescere il prodotto interno lordo e offrire soldi pubblici per promuovere l’innovazione, anziché impedirla). Senza contare che, in un momento in cui è difficile abbassare la pressione fiscale (non perché non si possa, ma perché comporta scelte di cui non si è capaci), si abbassa drasticamente la pressione burocratica.

Le società in house sono animali misti che (mal)governano la spesa: possedute interamente dallo Stato agiscono come società private, il tutto per rendere servizi interamente pagati dallo Stato. Là dove c’era una direzione generale, insomma, sorge una società, con i suoi organi, i suoi costi e le sue auto di servizio. Mentre la direzione generale non chiude. Ma non basta, perché la loro costituzione non eliminava affatto le sovrapposizioni. Tanto per fare un esempio, niente affatto innocente: nel solo ministero dell’economia ci sono tre centri di spesa relativi all’informatizzazione, indipendenti fra di loro: uno per la ragioneria, uno per la direzione del tesoro e il terzo per il personale. I tre non si parlano e non si coordinano. L’unica autonomia significativa, purtroppo, s’incarna nella spesa, nel senso che ciascuno la indirizza (fornitori compresi) per i fatti propri.

Posto che la spending review non intaccava questa costosa e disfunzionale incresciosità, in virtù del principio secondo cui i centri di spesa da chiudere e accorpare sono solo quelli degli altri, non certo quelli che fanno capo alla burocrazia che redige quei documenti, almeno stabiliva, il testo originario, che le società in house dovessero chiudere automaticamente. Gli emendamenti parlamentari hanno introdotto una serie di eccezioni che, ci scommetto, diventeranno la regola: non chiude chi svolge servizi di interesse generale, “anche aventi rilevanza economica” (come a dire che ce ne sono di totalmente inutili e irrilevanti), si salvano le finanziarie regionali, come quelle che gestiscono banche dati utili ad accedere ai finanziamenti europei (quelli che perdiamo, senza tenere conto che quei dati devono essere accorpati e socializzati, mica frazionati e nascosti in tanti posti diversi), e non chiudono nemmeno quelle che l’autorità per la concorrenza riterrà abbiano un ruolo, fosse anche “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto …”. Ve lo dico io qual è l’unico contesto comprensibile: non chiude nessuno. Però dovranno ridurre la spesa, di almeno il 20%. E questa è la ciliegina sulla torta dell’incapacità e dell’ipocrisia.

In questo modo, infatti, chi era utile dovrà tagliare servizi e chi era inutile continuerà a pagare solo quello che gli preme: la burocrazia interna e i fornitori amici. Questo è il succo del capolavoro parlamentare, accettato dal governo. Per noi era troppo poco, per altri troppo, alla fine resta niente. Se i cittadini conoscessero meglio queste cose, che sono noiose, lo capisco, ma anche dolorose per il nostro portafoglio, come per la qualità dei servizi pubblici, saprebbero subito cosa rispondere a chi sostiene che il futuro dell’Italia dipende dal futuro dell’“agenda Monti”. E non sarebbe una risposta gradevole, sebbene si spera sempre commendevole.

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