Economia

Tagliare per non tassare

Tagliare per non tassare

C’è qualcuno, in giro, che non chiede il taglio delle tasse? Lo chiedono i sindacati, come gli imprenditori. Lo chiede la Lega. Lo ha promesso il governo, annunciando una riforma che è imminente da tempo immemorabile. Si potrebbe farlo subito, se non fosse per un dettaglio: non ce lo possiamo permettere. O, per meglio dire, potremmo e dovremmo permettercelo, ma a patto di tagliare significativamente la spesa pubblica. Ed è su questo punto che i ciarlieri delle riforme diventano improvvisamente silenti.

Dagli Stati Uniti è arrivata una fotografia: c’è un signore che porta la bandiera da mettere nella buca del golf, è il Presidente, Barak Obama; due, dotati di mazza, sono in pantaloncini corti, il vice presidente, Joe Biden, e lo speaker del congresso, John Boehner, l’ultimo è John Kasich, governatore e attento conoscitore della finanza federale. I primi due sono democratici, gli altri repubblicani. Il golf è un pretesto, in realtà, si sono incontrati per concordare i tagli alla spesa. A reclamarli è l’opposizione repubblicana, che al congresso ha la maggioranza. A tutti loro è chiara una cosa: il governo del debito pubblico non è un interesse di parte, ma nazionale. Fuori dal green continueranno a combattersi senza esclusione di colpi, i repubblicani accusando chi governa di dilapidare ricchezza e i democratici accusando gli oppositori di non avere cuore per la società, ma sanno che senza un accordo fra di loro il Paese si ferma.

Da noi le cose vanno diversamente. La causa è prevalentemente istituzionale: visto che nessuno ha potere reale ciascuno spera di fregare l’altro approfittando delle disgrazie collettive. La riforma fiscale, quindi, resta appesa a roba immaginifica, come la gnagnera della lotta contro l’evasione fiscale, che unifica destra e sinistra, in un trionfo di sadica impotenza. Molto, invece, si potrebbe fare, se solo si praticasse la nobile arte della politica.

Riformare senza creare deficit significa prendere da una parte e mettere dall’altra. Lasciare immutata la pressione fiscale significa non tassare una cosa e tassarne un’altra. Il tutto mentre incombono le società di rating, che, in totale conflitto d’interessi e con la credibilità di chi certificò bilanci in bancarotta, considerandoli solidi, possono penalizzarci declassando il nostro debito. Basta una sberla di quel tipo per costringerci a scucire altri soldi, raccolti con le tasse. Al solo scopo di mantenerci indebitati.

Per uscirne occorre ripensare la struttura stessa della finanza pubblica. Prendete un esempio: i militari. Da quando è stata abolita la leva spendiamo meno e abbiamo altissima qualificazione professionale. Forze Armate mal funzionanti si sono trasformate in un’organizzazione che altri c’invidiano. Senza spendere di più. Si può farlo per la scuola, per la sanità, per la giustizia, per le grandi opere, ma sempre partendo dalla rottura di un tabù, dallo spezzare il filo della continuità.

La spesa pubblica può essere tagliata e riqualificata allo stesso tempo. In quel modo si può abbassare la pressione fiscale e ridare linfa ai consumi e ai risparmi. Le due cose assieme dimostrerebbero solidità e affidabilità, smentendo gli uccelli del malaugurio. Ma per mettersi su questa strada occorre che al governo ci sia chi non dipende da un pratone o da una protesta, chi possa permettersi di non cedere alle proteste dei privilegi e delle corporazioni. Chi sia capace, anche, di tagliare con l’accetta le strutture e i costi della politica, non perché siano risolutivi, ma perché odiosi. Chi, insomma, sappia prestare orecchio a un Paese che schiuma rabbia e pur ha i numeri per pensare ad un futuro migliore.

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