Economia

Telecom e quel che avevamo detto

Telecom e quel che avevamo detto

Le indagini sono giunte a Marco Tronchetti Provera, seguendo il filo che avevamo anticipato e descritto. Non so se abbia ricevuto o stia per ricevere un avviso di garanzia, ma è irrilevante, perché quello è un atto giudiziario, che se e quando verrà emesso sarà a garanzia (come dice il nome, tante volte violato) della sua persona e della sua difesa, sarà, se lo sarà, la tappa di un percorso lungo il quale nessuno avrà il diritto di mettere in dubbio la sua innocenza.

Ma quella è la giustizia dei tribunali, noi qui non vestiamo la toga, non emettiamo verdetti ma raccontiamo fatti, proponiamo interpretazioni. Ecco, quel che abbiamo raccontato è sempre più vero, quel che avevamo letto nel futuro si avvera. Ed è da qui che vale la pena ricominciare.

La radice di quel che è successo e succede, non lo si dimentichi mai, è tutta nella malaprivatizzazione di Telecom Italia, raccontata per filo e per segno in Razza Corsara. Quell’azienda non doveva più appartenere allo Stato, doveva essere privatizzata, ma Prodi e D’Alema lo fecero nel peggiore dei modi. Questi sono i risultati. Quando Tronchetti Provera, usando i soldi di Pirelli ed in società con Benetton, compera Telecom lo fa pagandola all’estero. Telecom Italia non era italiana. Considerato che era partita per essere una public company, già questo è uno scandalo. Il brizzolato ed elegante finanziere, che si fa fotografare in pose pensose e fa scrivere d’essere il “nuovo Agnelli”, compera anche i debiti e ne contrae di nuovi. Annaspa fin da subito, s’accorge d’avere fatto male i conti, non propone alcuna strategia per la società e continua il già avviato processo che porta una grande multinazionale a divenire un operatore regionale dipendente dalle decisioni di una sola Autorità. Se dovesse valutarsi l’abilità manageriale e la saggezza finanziaria, il voto sarebbe zero tagliato. Ma le cose stanno anche peggio.

Assieme a Tronchetti Provera (ed a Buora, ci arrivo fra poco) compare sulla scena Tavaroli, mentre quasi subito scompare Bondi. Lo ricordo perché proprio la vettura di Bondi fu oggetto delle prime attenzioni di Tavaroli, che finse di scoprire una microspia artatamente collocata da un suo collaboratore. Fu l’occasione per mandare via l’allora responsabile della sicurezza e prenderne il posto. Da quel momento Tavaroli ha spadroneggiato, praticamente senza limite di spesa, mettendo le fatture in conto a Telecom ed a Pirelli, arruolando i suoi amici, e ricordando a tutti, con ossessivo intercalare, che lui parlava direttamente con Marco. Queste cose le scrissi prima che iniziassero le inchieste, e prima documentai che il giro di spioni era piuttosto inquietante. Quando il pentolone fu scoperchiato dai magistrati, Tronchetti Provera fu lesto a dire “noi siamo la parte lesa”. E di ciò mi sono occupato qui, e nel libro Prodi, Telecom & C., proponendo una lettura che ora si ritrova nell’ordinanza del gip dove, per la prima volta in un atto giudiziario, si chiarisce che l’attività spionistica è da presumersi svolta nell’interesse del padrone, Marco Tronchetti Provera.

La questione, in realtà, è semplice. Tavaroli ed i suoi avevano messo a punto una potentissima lente per spiare la vita privata di quelli che loro consideravano nemici, o che, comunque, preferivano prepararsi a condizionare. Fecero anche di più, costruendo notizie radicalmente false, diffamanti, potenzialmente assassine. Di tutto questo, non dico di qualche particolare, ma del grossolano insieme, Tronchetti Provera era al corrente? Si può rispondere negativamente, ma solo a patto di considerarlo incapace d’intendere e prudentemente proteso a non volere. Le parti lese di questa vicenda sono Telecom e Pirelli, ma lui non si chiama mica Marco Telecom o Marco Pirelli (quella era la prima moglie), e siccome era a capo delle società che pagavano questo popò di roba, o è responsabile o è un incapace. Non escludo che sia parte l’una e parte l’altra cosa. Lo ricorda lui stesso, dicendo che spiavano anche i suoi familiari, e quando chiamò Tavaroli avvertendolo di avere saputo d’essere spiato il suo responsabile della sicurezza iniziò le indagini spiando il suo padrone e la sua agenda. Davvero ragguardevole.

Ma perché tutto questo? La risposta è triste: perché nell’Italia dei poteri deboli e del capitalismo declinante è possibile credere che si possa agguantare il potere, ed i suoi denari, non per avere realizzato qualche cosa di grande, ma per essere stati capaci di navigare fra i palazzi, le procure, le cantine e le discariche. Per cinque anni i fatti sembravano dargli ragione: erede dell’industriale più influente; ai verici di Confindustria, con Montezemolo e Della Valle; intervistato da genuflessi che lo lasciavano spaziare sul globo terraqueo; padrone della cronaca economica e di quella mondana. Quelli che avevano da obiettare che la baracca non stava in piedi ci contavamo sulle dita di una mano. Poi è venuta giù, e tutti a strillacchiare: chi l’avrebbe mai detto? Io, io lo avevo detto. Ed ora che succede?

La partita giudiziaria andrà avanti per anni. Quando ci sarà un verdetto definitivo mandatemi una cartolina. Ma da subito si pone un problema diverso, perché se s’ipotizzerà, come a me pare scontato, che di quel sistema Tronchetti Provera era a conoscenza allora sarà difficile credere che l’unico a non saperne proprio nulla fosse Carlo Buora, attuale vice presidente di Telecom Italia. Il presidente, Guido Rossi, lo ha recentemente invitato a scegliere se restare ai vertici di Telecom o di Pirelli e Buora ha scelto Telecom, senza per questo rompere il rapporto d’antica solidarietà con Tronchetti Provera, che gli ha conservato il posto in Pirelli. So di dargli un dolore, ma ho l’impressione che Rossi sia stato gabbato. Il suo è un compito difficile, consistente nel tentativo di salvare Telecom senza per questo compromettere il patrimonio di chi la possiede, il tutto avendo cura che non sia la magistratura a provocare i danni più grossi. Proprio perché delicato, questo compito non è certo agevolato da chi si ostina a non volere mollare il controllo di Telecom.

Se Rossi non riuscisse nell’acrobazia, se non si troverà il modo di portare in Olimpia investitori nuovi ed affidabili, allentando o, meglio, sciogliendo la presa di Pirelli e di Tronchetti Provera, le cose andranno per il peggio. E, del resto, con tutto il rispetto, non è senza significato che a proporsi come soci siano gruppi come quelli dell’indiano Hinduja, coinvolto nello scandalo per la vendita delle armi Bofors e protagonista di discusse operazioni in Inghilterra, e gruppi come il russo Sistema, che già ci fanno pensare ad un’Italia le cui reti di gas e telecomunicazini siano in mano ai russi, già artefici di notevoli acquisizioni immobiliari. Insomma, è vero che i soldi sono soldi e non si deve avere la puzza sotto al naso, ma l’impressione di essere un mercato dove si possano ricollocare i capitali più spericolati è piuttosto nauseante. E ci si domandi chi lancia queste notizie, quali effetti hanno sulla Borsa e chi ne approfitta.

La sorte di Telecom Italia deve essere oggetto di attenzione politica. Non per occuparsi di quali scelte aziendali fanno i privati, come voleva Rovati per Prodi. Non per fermare l’opera dei magistrati, che sarà tanto più meritoria quanto veloce ed efficace. Ma perché quella è la grande rete di comunicazioni d’Italia e su di essa c’è un indubbio interesse nazionale. Certo, poi uno guarda il governo e ci vede ancora Prodi e D’Alema, guarda i russi, e, quasi quasi: spasiba balsioie.

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