La nostra storia recente è stata così poco letta e compresa che, ad alcuni, appare misteriosa. E’ vero che, oggi, con una decina d’anni di ritardo, c’è chi si accorge che le panzane raccontate circa la morale e la moralizzazione erano, appunto, tali, ma, al tempo stesso, non riesce a comprendere quale nesso vi sia fra le eventuali esagerazioni giustizialiste e complotti che appaiono tanto oscuri quanto improbabili.
Difatti, poveri gattini ciechi, cercano con la lente d’ingrandimento, scrutando il suolo, le tracce dell’elefante contro il quale battono la zucca. Proviamo a vedere se qualche fatto e qualche cifra sono in grado di chiarir loro le idee.
Non molti anni fa il mercato delle telecomunicazioni era interamente sotto il dominio di un monopolio statale. A batterci contro il monopolio eravamo davvero pochini, avversati dal conservatorismo di destra e di sinistra (vivace e baldanzoso, quello di sinistra), e dal reclamato protezionismo dei fornitori. Avremmo voluto governare la liberalizzazione secondo queste tappe: 1. razionalizzare il settore pubblico chiudendo l’Azienda di Stato, concentrando tutto nella finanziaria Stet, quotata, e riducendo ad uno i tre operatori esistenti; 2. aprire il mercato alla concorrenza, avendo cura di far crescere i nuovi operatori nazionali; 3. vendere quel che era rimasto (molto) nelle mani dello Stato al miglior offerente, non importa se italiano o straniero. Si riuscì a fare solo la prima cosa (con benefici per le casse dello Stato), il resto fu travolto dal nuovo che andava avanzando. Vediamo cosa è successo.
Nel 1997 il governo vendette il controllo di Telecom Italia, azienda derivata dalla fusione delle tre società telefoniche facenti capo alla Stet (Sip, Italcable e Telespazio), incassando 11,82 miliardi di euro. Fu scelta la strada del nocciolino, consegnando la leadership aziendale ai signori di Ifil, e questo avvenne nonostante il professor Rossi pontificasse, alla ben retribuita guida dell’operazione, di pubblic company. Le successive vicende societarie di Telecom Italia gridano vendetta, e ben presto la società diviene oggetto di scorribande predatorie e protagonista di errori manageriali che i vecchi ed insultati boiardi non si sarebbero neanche sognati. E’ il mercato, dicono i liberisti da Bignami. E vediamolo, questo mercato.
Nel 2000, tre anni dopo la privatizzazione del monopolista, lo Stato procede al riacquisto di una società di telecomunicazioni. Difatti Enel, che è dello Stato, acquista da Mannesmann-Vodafone la società Infostrada. Un passo indietro: nel 1997 lo Stato vende anche, alla Olivetti, la rete tlc delle Ferrovie, facendola pagare 700 miliardi di lire, pagabili in quattrodici anni; l’anno successivo la stessa rete viene venduta da Olivetti a Mannesmann (Infostrada) per 14 mila miliardi di lire. Alla fine Enel nazionalizza la privata Infostrada pagandola 7,5 miliardi di euro.
Riassunto: lo Stato vende un gigante delle tlc, operatore mondiale, Telecom Italia, ad 11,82 miliardi di euro; ed acquista un operatore locale, con fatturato impareggiabilmente inferiore, per 7,5. Lo stesso Stato vende la rete delle ferrovie per 700 miliardi, che successivamente viene rivenduta a 14 mila, al fine poi di ricomperarsela con Infostrada. La tesi che non sostengo è che a governare fossero degli incapaci.
Attenti: la rinazionalizzazione di un pezzo delle tlc non passa attraverso Wind, società telefonica dell’Enel (ma perché l’Enel ha una società telefonica? non si doveva lasciare ai privati quel mercato?), bensì attraverso la Enel Investment Holding BV, una società olandese. L’uso di questo tipo di società è assolutamente comune e normale, così come d’ogni altra forma societaria risiedente in paradisi fiscali od in luoghi che garantiscano riservatezza. E’ la globalizzazione, bellezza, e non saremo certo noi a menar scandalo di questo. Epperò, epperò che sia lo Stato ad utilizzare strumenti che servono (in questo caso) non a rendere più dinamiche le proprie aziende all’estero, ma ad eludere il nostro fisco nazionale, be’ è una di quelle cose divertenti che i nostri gattini ciechi non potranno non apprezzare.
E che dire della Seat? Qui cedo la parola a Geronimo (Paolo Cirino Pomicino), che ci ha regalato un secondo libro, “Dietro le quinte”, succoso, interessante ed istruttivo (a Geronimo, però, vorrei chiedere: o la smetti di parlare a sproposito di “finanza azionista e massonica”, o mi dai l’indirizzo che vado ad iscrivermi). Geronimo riassume: “Il 25 novembre 1997 Comit-De Agostini acquista il 61,7 per cento di Seat per 1655 miliardi (sulla base di una valutazione complessiva della società di 3200 miliardi). Il 15 marzo 2000, e cioè trenta mesi dopo, Colaninno acquista il 20 per cento della Seat per la cifra record di 7188 miliardi. Otto mesi più tardi, e cioè nel novembre dello stesso anno, la Telecom acquista un altro 17 per cento per 5750 miliardi e spende ancora 5000 miliardi per l’8 per cento che viene consegnato dal mercato dopo l’Opa obbligatoria. In parole povere, chi aveva acquistato la Seat a 1655 miliardi la rivende trenta mesi dopo a quasi 18 mila miliardi. 16345 miliardi in più. Non male come investimento: rende 545 miliardi al mese”.
Ai gattini smemorati va ricordato che Colaninno (come noi scrivemmo e documentammo per tempo, e come documenta Enrico Cisnetto ne “Il gioco dell’Opa”) aveva conquistato Telecom a seguito di un’Opa dai contorni davvero originali, tanto che fu trovato a vendere azioni nel mentre annunciava di volerle comperare; mostrò subito la propria vicinanza ad un potere politico, frutto del nuovo che già era avanzato, che lo coprì e sponsorizzò; si diede infine ad una gestione di Telecom Italia che più avventurosa non si poteva immaginare.
Ora, è vero che nel periodo di cui stiamo parlando molti valori devono considerarsi alla luce dell’altalena borsistica, ma le oscillazioni appena riassunte vanno ben al di là del pur impazzito ottovolante. Un esempio per tutti: La Telecom di Colaninno acquista il 30 per cento di Globo.com, in Brasile, per la favolosa cifra di 830 milioni di dollari; la Telecom di Tronchetti Provera considera zero il valore di quell’investimento. Tutti finiti nell’inceneritore, quegli 830 milioni di dollari? E come mai chi constata l’avvenuto falò non ritiene di sollevare alcuna eccezione sulla condotta dei piromani?
Ecco, questa è solo una finestrella aperta sui frutti del nuovo che andava avanzando. Non occorre essere dei gran contabili per rendersi conto che le casse dello Stato non ne hanno goduto. Altri sì, hanno goduto, ed alla grande. I gattini ciechi si stropicciano gli occhi ed esclamano: possibile che fra le due cose vi sia un nesso? No, difatti non c’è, son tutte cose che capitano per caso.