Economia

Telecom, fra Serbia e Bra

Telecom, fra Serbia e Bra

Attorno agli affari di Telecom Italia all’estero si muove, oggi, un mare di palta e d’ipocrisia, si scambiano messaggi cifrati e minacce occulte, si commettono errori politici, si sventolano bandiere di cui s’ignora la provenienza.

Fra la Serbia ed il Brasile ciondola un’Italia senza orrore di se stessa. Forse vale la pena di mettere qualche puntino sulle “i”, ricordando che la faccenda è assai più grave ed assai più brutta di quel che si è spinti a credere.

Intanto una premessa, che la dice lunga su quale sia il livello e la (mancata) indipendenza del giornalismo italiano: la faccenda brasiliana, che oggi fa tanto rumore, non è affatto uno scoop recente, né un’inedita scoperta, la raccontammo già, su L’Opinione, il 28 giugno del 2000. Di nuovo, non è successo un accidente.

Dunque: se, a coronamento dell’affare serbo, sia stata pagata una tangente, siano, cioè, stati remunerati quei politici che favorirono l’operazione e se, a compimento degli spaventosi intrallazzi brasiliani, si siano indirizzate delle somme per soddisfare le esigenze d’altri politici italiani, non lo so, e non me ne importa un fico secco. I processi in piazza sono una schifezza, da chiunque siano istruiti. Se, oggi, una parte della Casa delle Libertà, reclama l’erezione di una nuova forca mediatica, bé, questa è solo la dimostrazione di quel che abbiamo sempre saputo: il giustizialismo è un’infezione cui la destra è soggetta, oltre ad essere un istinto politicamente demente. Se la sinistra, l’Ulivo, o come diavolo si chiama, oggi, scopre le sacre virtù del garantismo, scopre che ai testimoni non si crede sulla parola, ma si cercano riscontri, scopre che non si arresta per ascoltare confessioni, bé, evviva, che si vergogni per quel che, solo ieri, sostenevano, vale a dire l’esatto contrario. Ma tutto questo è irrilevante. La parte penale di queste faccende, se c’è, la si lasci alla magistratura (che non sostenga la magicità dell’arresto, che non insabbi, vale a dire che rispetti le leggi, e sarebbe già una bella novità), veniamo alla parte politica, che è la più grave.

Partiamo dalla Serbia. Prodi, Fassino e Dini sostengono di non averne mai saputo nulla. Ecco, intanto non è vero, e se lo fosse sarebbe allucinante. Si ricordi che: a. quando quell’affare si fece lo Stato era l’azionista maggioritario; b. quando la società serba fu venduta lo Stato era ancora azionista e deteneva, come oggi, una golden share; c. in ragione di questo, in tutti e due i momenti, lo Stato, per il tramite del Tesoro, aveva suoi rappresentati nel consiglio d’amministrazione. Ora, ci si chiede, quei signori sono dei totali dementi, nel qual caso perché mai sono stati nominati, o sono in grado d’intendere e di volere, nel quale caso perché non hanno riferito? Ma come, un acquisto di quel tipo (lasciamo perdere, per ora, le considerazioni politiche) arriva in consiglio travestito sotto “varie ed eventuali” ed il rappresentante del Tesoro non sente il bisogno di dire: scusate, ma io devo riferire? Oltre tutto, all’epoca dell’acquisto, tutto intero il vertice era nominato dallo Stato, e nessuno sente il bisogno di riferire?

Un illustre giurista come Guido Rossi, infine, avrebbe dovuto eccepire che un acquisto non va nelle varie ed eventuali. Qualche ricordo degli studi, magari in omaggio alle pagine del Messineo, avrebbe evitato di lasciare questa gigantesca impronta digitale, ad imperitura memoria di un affare che nasce strano, e cresce peggio.

In quanto al personale politico, risulta evidente che il sottosegretario agli Affari Esteri, Piero Fassino, era al corrente della faccenda, non foss’altro perché un nostro diplomatico, all’epoca dislocato in Serbia, si sbracciava, per iscritto, a sostenere che l’orrida cosa non andava fatta. Fassino, a sentire Dini e Prodi, tenne tutto per sé, non disse nulla a nessuno. Politicamente è gravissimo.

Non meno grave è il fatto che, ammesso che nessuno sapesse niente (?!), all’indomani dell’acquisto i vertici di Telecom non siano stati convocati, alla Farnesina od a Palazzo Chigi, per sapere cosa diavolo avevano fatto, seguendo quali procedure, in omaggio a quel disegno strategico. Così, tanto per avere qualche cosa da dire nel caso in cui gli statunitensi avessero riconosciuto in quell’affare la versione economica della dottrina filoserba già espressa dal ministro Dini, e detestata dal governo americano. Nessuno fece niente? Ma così (non) facendo il governo di allora lasciò la seconda gigantesca impronta digitale: non è che non sapevano, è che volevano poter dire di non sapere.

Tutto questo si regge, ed è materia politica che non può essere archiviata, del tutto a prescindere dalle dichiarazioni a verbale di conti a marchesi, che con la loro sola esistenza sembrano fatti apposta per rendere grottesco ciò che merita più seria riflessione.

E veniamo al Brasile. Costringere Brasil Telecom a pagare più del dovuto per l’acquisto di un operatore, CRT, allora venduto dalla spagnola Telefonica; acquistare ad un prezzo insensatamente alto (e non si dicano scempiaggini sulla bolla internet perché era già scoppiata, e comunque non avrebbe giustificato quel prezzo) il 30% del niente, vale a dire di Globo.com, sono due operazioni che danneggiano gravemente la società ed i suoi azionisti. Può capitare, certo, e non sarebbe la prima volta che un gruppo importante finisce nelle mani di un incapace. Ma i conti non tornano, non è così che stanno le cose.

Quelle faccende brasiliane non solo danneggiano il gruppo, ma generano anche delle cause legali, con il socio brasiliano che, a torto od a ragione, chiede i danni. Perché il nuovo gruppo dirigente di Telecom Italia non eccepisce la responsabilità dei precedenti amministratori? Perché, come tutti sanno, al momento della cessione (fuori Borsa, portando profitto a chi ha danneggiato l’azienda e lasciando i piccoli azionisti alla finestra), gli acquirenti si sono impegnati a non sindacare le scelte dei venditori. Già, ma può un simile accordo, destinato a far venir meno un pezzo del codice civile, essere compatibile con il fatto che trattasi di un gruppo quotato in Borsa? Dove va a finire la necessaria trasparenza? E può, un simile accordo, essere compatibile con il fatto che lo Stato rimane un azionista rilevante, per giunta dotato di poteri particolari? E’ ovvio che no, ma questo apre un problema politico grave.

E qui viene il bello, anzi, l’orribile. Il professor Luigi Spaventa prende carta e penna e scrive per il Corriere della Sera: la faccenda serba, sostiene, non arreca un gran danno allo Stato, appena dieci milioni (calcoli suoi), semmani ne arreca agli azionisti; e se di danni agli azionisti si vuol parlare, allora si consideri che quelli derivanti dalle dissennatezze latino americane sono assai maggiori. Attenti. Intanto il professor Spaventa comunica ai piccoli azionisti di Telecom Italia, così come già sapevano gli obbligazionisti della Cirio, che il controllo sulle società quotate è praticamente inesistente. E se lo dice lui che era presidente della Consob, c’è da credergli.

Ma perché il professor Spaventa sente il bisogno di sostenere una tesi tanto visibilmente autolesionista? Bisognerebbe domandarglielo, anche se una prima risposta la si trova su la Repubblica del 6 settembre. Nel mentre si grida contro il burattinaio che muoverebbe le gole profonde dell’affare serbo, e si afferma che Mangiafuoco alloggia a Palazzo Chigi, lo stesso quotidiano annuncia che “Ora si apre il dossier Brasile”, e per chiare le idee ai lettori illustra la cosa con una bella foto di Colaninno e D’Alema che si stringono la mano ammiccanti. Capito, garzoncelli scherzosi del Polo? Quello cui stiamo assistendo è uno scontro di potere nella sinistra, condotto con armi pesanti e secondo uno stile frutto di una scuola che molta parte del Polo non ha mai frequentato e che, quindi, manco riconosce. Ragione per la quale qualcuno dei polisti, con volenterosa generosità, si offre a recitare una parte che la saggezza, oltre che il buon gusto, suggerirebbe di declinare.

Ma queste sono le materassate, forse divertenti, certo decadenti. Il nocciolo politico sfugge ancora alla discussione, è il problema più grave e pesante ed attiene al necessario riesame di quelle che (del tutto a sproposito) si vollero chiamare “privatizzazioni”. Quel capitolo è fondamentale per capire quel che è successo in Italia, e capire quel che è successo è indispensabile per potere guardare avanti senza l’ottusa cretineria dei fessi volenterosi. Chi non vuole rileggere il passato e non è capace di immaginare il futuro, almeno si fermi ad osservare il presente: un paese senza classe dirigente, nella politica, nell’economia, nelle arti. Chi, nel presente, vede solo Marini o la Ariosto non è che non ha futuro, è che non lo merita.

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