Economia

Telecom: un storia da comprendere

Telecom: un storia da comprendere

La vicenda di Telecom dice cose importanti, che non possono essere liquidate con colorite considerazioni sull’ondivaga gestione di questi ultimi mesi.

Sostenemmo che la strombazzata privatizzazione era un inganno, sotto due punti di vista.

Il primo riguarda il mercato : nelle democrazie occidentali non si privatizzano i monopoli; semmai si aprono i mercati alla concorrenza, mediante una adeguata deregolamentazione, e si varano misure asimmetriche destinate a dare ossigeno ai nuovi arrivati. Il secondo riguarda la struttura proprietaria di Telecom, dove non solo permane la golden share in mano al governo, ma dove il Tesoro resta l’azionista più importante. Allora, dato che già da molti anni Stet e Sip erano due società per azioni, ed avevano, quindi, una natura privatistica, ciò che si è realizzato è solo una vendita di quote pubbliche destinata a far cassa, senza in nulla variare la natura della nuova società, nata dalla fusione delle due precedenti.

A questo inganno se ne aggiunse un altro. Si vendettero le azioni che stavano nel portafoglio del Tesoro (che le aveva ereditate dal portafoglio IRI) in modo da creare un “nocciolo duro” ed un azionariato diffuso. L’azionariato diffuso, in assenza di una Borsa controllata e modernamente organizzata, non conta nulla; mentre il nocciolo duro, che duro non era e non è, serviva a consegnare il potere di nomina nelle mani dell’Ifil, di Umberto Agnelli. A tale potere dobbiamo la designazione del presidente Rossignolo e dei suoi boys. Il risultato di queste nomine non ha bisogno di commenti.

Quel che, invece, bisognerebbe valutare è l’andamento del titolo Telecom in Borsa. Insomma, a fronte di un incredibile pasticcio sui dati relativi all’andamento economico della società si è assistito ad un vigoroso crollo del suo valore, salvo poi, essendo il pasticcio superficiale, assistere ad una ripresa del titolo stesso, fino ad una sua impennata con l’annuncio delle dimissioni di Rossignolo. A noi pare che fatti di questo tipo andrebbero spiegati un po’ meglio, così come ci pare che la Consob farebbe bene a vigilare con più attenzione.

Ma torniamo alla cosiddetta privatizzazione. Rilevammo, a suo tempo, che in consiglio d’amministrazione sedeva, a rappresentare i piccoli azionisti, la stessa persona che era stata vice presidente della Stet, nominata dal governo. Rileviamo, oggi, che è proprio chi è stato nominato dal Tesoro ad avere ereditato la guida della società. A questo punto, fatto salvo il fatto che una società per azioni è una società a struttura privatistica, la Telecom assomiglia di più ad una società statale.

Inoltre lavora in un mercato, quello delle telecomunicazioni, in cui diversi concorrenti, a vario titolo, sono a loro volta legati ad aziende statali.

Questa straordinaria rappresentazione post sovietica è possibile non solo perché da parte del governo, al di là delle contrastanti dichiarazioni di facciata, la si copre, ma anche perché l’impresa privata italiana ha mostrato tutta la propria incapacità ad agire in un libero mercato di sana impronta capitalista. Insomma, come andiamo ripetendo da molto tempo, la cultura del monopolio non solo rende fragile Telecom sui mercati mondiali (perché cosi è, nonostante la propaganda opposta), ma ha anche permeato di sé l’intero mercato italiano, rendendolo gracile.

Si rimprovera, adesso, al ministro Cardinale di volersi intrufolare nelle vicende di Telecom. Giusto rimprovero, ma che, però, andrebbe esteso ai suoi predecessori, così come agli attuali sottosegretari, i quali hanno pubblicamente lanciato proclami contro l’ingresso nel mercato italiano di gruppi stranieri che ben difficilmente si adatterebbero alle logiche del perdurante statalismo.

Le storie di Telecom, allora, ci dicono cose importanti sulla condizione del nostro mercato, del nostro capitalismo, del nostro governo, delle nostre autorità di controllo. Purtroppo ci dicono cose niente affatto felici.

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