Quando ho cominciato a scrivere questo articolo, nella tarda mattinata di ieri, il debito pubblico italiano – secondo l’utile e inquietante calcolatore dell’Istituto Bruno Leoni – quotava € 2.931.610.621.804. Agevoliamo la lettura: 2.931 miliardi, 610 milioni, 621mila e 804 euro. Ieri sera alle ore 20 era arrivato a 2.931.670.313.754. Il governatore della Banca d’Italia lo aveva misurato – quindi è un dato ufficiale – a maggio, quotando 2.918,9 miliardi. Viaggiamo velocemente verso quota 3.000. Vero è che la misura più utile del debito non è in valore assoluto ma in percentuale sul Prodotto interno lordo, epperò non per questo le cose migliorano: siamo al 137,3% e viaggiamo verso il 140%.
Il problema dei conti pubblici non è cosa ne pensa e penserà la Commissione europea in rapporto al nuovo Patto di stabilità (negoziato dal governo attualmente in carica), ma cosa provoca una roba simile in Italia e quanto costa. Spendevamo 83 miliardi per pagare gli interessi sul debito pubblico, ma anche in questo caso viaggiamo verso i 100 miliardi. Può consolare il fatto che grande parte del debito è finanziata da investitori italiani, ma questo significa che il costo lo paghiamo tutti, mentre gli interessi li incassano solo alcuni. È incredibile che questo tema sia considerato quasi secondario, nel nostro dibattito pubblico. Laddove è decisivo.
Il ministro dell’Economia si è avventurato in un’affermazione suggestiva e impressionante: al netto degli interessi sul debito pubblico potremmo avere un bilancio in pareggio. La seconda parte – il pareggio di bilancio – sembra confortante, invece è un arretramento e una sconfitta. Primo perché l’Italia ha avuto, per moltissimo tempo, un avanzo prima degli interessi, non un pareggio. Secondo perché vuol dire che il debito aumenta allo scopo di pagare il debito. Il che esclude ogni pur promessa diminuzione della pressione fiscale, tanto più che a maggio il gettito è cresciuto di 2.9 miliardi (il 7,1%) e nei primi cinque mesi di quest’anno di 13.7 miliardi.
Abbiate pazienza, un ultimo dato: lo Stato è un gran produttore di spesa e di debito, mentre i cittadini sono gran produttori di risparmio e detentori di patrimonio. Prima o dopo si coglierà il nesso fra le due cose. Sta di fatto, però, che solo il 16% dei soldi risparmiati restano in Italia, mentre il resto – del tutto lecitamente e a cura di intermediari professionali – viene investito all’estero. Quindi: con le tasse che paghiamo non riusciamo a pagare tutte le spese pubbliche (perché le seconde sono troppo alte), mentre con i soldi risparmiati cerchiamo profitti, giustamente, finanziando la crescita altrove. Il problema non è che si cerchino opportunità nel mondo – evviva! – ma che non le si trovi convenienti in Italia.
In queste condizioni il nostro Paese non ha nessun interesse a isolarsi in sede europea, perché gli argini alle speculazioni sono tutti europei. Se ne uscissimo e facessimo da soli avremmo ottenuto il sovrano diritto di far schizzare l’inflazione in alto e approssimarci alla sottrazione di una quota di patrimonio privato. Grazie, no. In Unione europea esistono interessi diversi e libertà politica, non è che se chi governa l’Italia non è nella maggioranza europea ci rimette l’Italia, ma se fa di quella posizione (sicuramente presente sia nella maggioranza che nell’opposizione) la ragione dell’ostruzionismo come Paese, come gravemente accade con il Mes, ci rimette l’Italia e pagano gli italiani. Lo si tenga tutti a mente, in vista del voto parlamentare europeo di domani.
Porre rimedio a questa situazione, far crescere il debito meno velocemente di quanto cresca l’economia (oggi avviene il contrario e facciamo deficit), richiede programma e impegno di lunga lena. Un tempo in cui è certo che cambierà il governo e il suo colore. Se la politica avesse assennatezza concorderebbe il da farsi ben oltre l’orizzonte di una legislatura, coinvolgendo chi voglia ragionare. È comunque pluriennale l’accordo con la Commissione europea.
Davide Giacalone, La Ragione 17 luglio 2024