Giustizia

41 bis

41 bis

Quasi nessuno, fra i cittadini italiani, sa cos’è l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario.

La commedia messa in scena, solitamente, è questa: da una parte quelli che si mostrano inflessibili nell’esecuzione di una pena carceraria e che giudicano inammissibile il fatto che un detenuto continui ad avere un qualche ruolo nella propria associazione criminale; dall’altra quanti fanno della difesa dei diritti dei cittadini, siano essi liberi sotto indagine, o sotto processo, o detenuti, una sorta di punto fisso che non intende piegarsi ad alcuna realistica considerazione. Nella commedia i primi sono favorevoli all’articolo 41 bis, i secondi contrari. Ecco, questa commedia è una schifezza, rappresentando la semplice messa in scena di una bugia.

Credo che il 41 bis sia una vergogna. Nel senso letterale: ci se ne deve vergognare. Tutti, a cominciare da quanti fanno spallucce, agevolati dalla retorica dell’emergenza. A questa vergogna la Camera Penale di Roma ha dedicato una pubblicazione (“Barriere di vetro”, Palombi Editori, 111 pagine, ? 10,00), divisa in tre parti. Suggerisco caldamente, in particolare, la lettura della seconda, quella scritta dai detenuti.

Il 41 bis entra nel nostro ordinamento nel 1992 (l’ultimo decennio del secolo ha ospitato politica, legislazione e giurisprudenza reazionarie) e, naturalmente partendo dalla constatazione di un’emergenza, prevede che si possano sospendere le normali regole della vita penitenziaria. Il che, concretamente, ha significato che a quei detenuti viene revocato il diritto alle visite di terzi, la partecipazione alle attività collettive interne al carcere, il diritto di lavorare, telefonare, ed anche acquistare viveri. Ma questo è niente. I colloqui con i familiari sono ridotti ad una sola ora al mese: i familiari vengono invasivamente perquisiti prima e dopo il colloquio, nonostante che questo si svolga attraverso un vetro blindato e mediante l’uso di cornette telefoniche. Attenti, perché l’orrore non ha limiti: i figli minori sono ammessi a dieci minuti di colloquio senza vetro: dieci minuti di contatto fisico al mese. Ditemi: chi è che sta subendo il carcere, il genitore od il bimbo?

I benpensanti stanno già dicendo che c’è gente che questa roba se l’è meritata. Penso che nessuno lo meriti, e ci torno, ma i benpensanti non sanno e non vogliono sapere che il 41 bis viene applicato anche a detenuti in attesa di giudizio e che verranno riconosciuti innocenti. Al Primo Commissariato, a Roma (Piazza del Collegio Romano), c’è un poliziotto che ha fatto due anni e mezzo di 41 bis. Assolto nei tre gradi di giudizio. Ma a quale dio deve urlare la propria vergogna un paese in cui succede questo?

Renato Borzone, illustrando le ragioni che hanno dato vita al libro, afferma che si è voluta dare la parola ai detenuti “indipendentemente da ogni valutazione sui reati da loro eventualmente commessi”. A ben vedere, però, quella valutazione non sarebbe solo sciocca, ma anche illegittima. L’intero percorso che va dall’avviso di garanzia al processo, all’eventuale pena (ma che, come dice saggiamente il magistrato di Trieste, solitamente s’inverte in carcere che precede l’assoluzione), questo percorso, appunto, non ha nulla di etico, non attiene alla morale, non giudica il peccato, ma si limita a valutare un comportamento concreto, di una persona specifica, alla luce delle leggi esistenti. Voglio dire che, quale che sia il fatto, una volta varcato il portone del carcere un essere umano si separa dal suo errore. Pensare di valutare le sue parole di dopo alla luce del suo errore (se esiste) di prima è cosa illegittima prima che sciocca. Chi dubita dell’umanità del detenuto, perché ritenuto responsabile di un reato atroce ed inumano, è egli stesso animato da ferocia ed accecato dalla sete di vendetta.

Qui si potrebbe fare un’osservazione al documento politico della Camera Penale di Roma, contenuto nel libro. I penalisti romani fanno riferimento alla nostra Costituzione, dove si stabilisce che la pena detentiva deve avere una finalità rieducativa. Il riferimento è tecnicamente corretto, ma ipocrita: sappiamo tutti che la petizione di principio è rimasta una chiacchiera. Alla fin fine il carcere ha uno scopo retributivo: hai commesso il tale reato, pertanto ti punisco togliendoti la libertà per questo periodo di tempo. Ma anche facendo cadere le ipocrisie, la finalità afflittiva del 41 bis emerge in tutta la sua pienezza come strumento destinato alla tortura. Si, alla tortura.

Quale mai ragione emergenziale può portare a limitare le ore in cui un detenuto respira fuori dalla cella? Quale ragione di sicurezza impone ad un bambino di non toccare il genitore per più di dieci minuti al mese? Questa è solo e soltanto tortura. Una realtà di cui mi vergogno, vergognandomi ancor di più per tutti quanti non sanno neanche vergognarsene.

Un’ultima osservazione, relativa alla prefazione vergata dal presidente della Camera Penale, Valerio Spigarelli. Egli scrive: “In Italia le battaglie sulle garanzie si fanno, da sempre ed in particolare negli ultimi tempi, dibattendo sui grandi principi a proposito di processi che riguardano uomini famosi. Noi abbiamo voluto aprire un dibattito sul diritto al trattamento umano degli ultimi”. L’intento è lodevole e felicemente raggiunto, ma la premessa contiene un errore. La cosa singolare è che l’errore, capovolgente la realtà, è figlio proprio della, diciamo così, “propaganda avversaria”. No, in Italia si è fatta strage di diritto e di diritti utilizzando il consenso che derivava dal colpire i famosi, i potenti, od i presunti tali. Si è applicata a loro la regola della colpevolezza evidente, non necessitante alcun processo (vedi Borrelli, Maddalena & C.), innanzi alla quale ogni richiesta di garanzie altri non era che attività ostruzionistica e dilatoria, destinata a ritardare la già preordinata giustizia. Passata quella stagione, come scrivemmo per tempo, la macelleria continua a far schizzare le ossa degli ultimi. Cui oggi, più che giustamente, l’Avvocatura riconsegna il diritto di parola.

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